CREMA – L’intervista esclusiva a Massimo Negri ospite della Libreria Cremasca

Per concomitanti impegni di sua eccellenza il vescovo, la rassegna dedicata agli storici dell’arte organizzata dalla Libreria Cremasca, cambia sede e nome diventando ‘Storici dell’arte nella Sala musicale Giardino’: gli incontri si terranno infatti nella sala invia Macallè,16 a Crema.

Sabato 1° giugno 2019 alle ore 16,30 si terrà il tredicesimo appuntamento della serie, ospite sarà Massimo Negri, docente a contratto di storia dell’arte pressol’Università degli Studi di Trento, che presenterà la monografia dedicata Vincenzo e Gian Gerolamo Grandi (Provincia Autonoma di Trento, Trento 2014).

Qual è stato il suo percorso di studi e cosa l’ha spinta a occuparsi di storia dell’arte?

Se non sembrasse retorico, potrei rispondere riprendendo il ben notoincipitdel proemio dei Quattro Libri dell’architetturadi Andrea Palladio e, storpiandolo un poco onde ‘piegarlo’ alla mia vicenda personale, dire “da naturale inclinazione guidato mi diedi… allo studio dell’arte”. In effetti è avvenuto tutto con estrema naturalezza. Fin da piccolo mi piacevano la storia e le testimonianze materiali delle epoche passate: penso in particolare – so che sembrerà una banalità – agli antichi palazzi nobiliari e ai castelli, che nella mia terra, ovvero in Trentino e, più nello specifico, nella ‘Valle delle Mele’, non mancano e qualificano il paesaggio con l’inconfondibile profilo delle loro torri e delle loro mura merlate. Benché già in precedenza i miei genitori – ai quali sarò sempre grato di questo come, ovviamente, di tante altre cose – avessero, in maniera più o meno consapevole, favorito in me lo svilupparsi di una speciale curiosità in fatto d’arte, portandomi a visitare mostre e musei, città e piccoli borghi in giro per l’Italia, non sapevo bene cosa fosse la storia dell’arte sino alla quarta ginnasio. Il mio incontro con la storia dell’arte tout court risale infatti al primo anno del liceo classico: allora, prima che riforme abbastanza discutibili la relegassero al solo triennio, era una disciplina curricolare sin dal primo anno della scuola superiore. Da subito mi sono appassionato alla materia, anche grazie all’insegnante, con la quale s’instaurò una singolare sintonia, che ci accompagnò, poi, per il resto del liceo. Di qui l’idea, maturata abbastanza presto, di continuare gli studi in quest’ambito anche all’università, non senza avere prima riflettuto al fine di vincere qualche dubbio personale e qualche resistenza in famiglia, che s’interrogava allora – e ahimè s’interroga tutt’oggi – sulle prospettive delle mie scelte, salvo però essermi sempre vicina e non farmi mai venire meno un sincero e caloroso sostegno. Sono così venuti gli studi alla facoltà di Conservazione dei beni culturali a Trento e, sempre nello stesso ateneo, il dottorato in storia dell’arte. Quindi gli assegni di ricerca e le collaborazioni, a vario titolo, con istituzioni culturali e associazioni di volontariato culturale, non solo trentine, con l’intento, almeno nei propositi sempre perseguito, di fare entrare, come ha scritto di recente Tomaso Montanari, “le opere d’arte nella vita intellettuale ed emotiva di chi si occupa di tutt’altro”. Non credo, anzi sono quasi sicuro, di non esserci sempre riuscito, ma… almeno ci ho provato.

Grazie alla presenza di Donatello fra il 1443 e il 1453 Padova diventa uno dei centri più importanti per la produzione scultorea in particolare per quella in bronzo. Questo primato artistico e tecnico non viene meno dopo la partenza del fiorentino, ma è portato avanti da vari maestri fino ai primi anni del Seicento. Fra loro, nella seconda metà del Quattrocento, ebbe un ruolo di primo piano il cremasco Giovanni de Fondulis, padre del più noto Agostino. In questa tradizione si inserisce anche il sodalizio di Vincenzo e Gian Gerolamo Grandi, rispettivamente zio e nipote. Cosa sappiamo dei primi anni di attività di Vincenzo?

Vincenzo nasce nell’ultimo quarto del Quattrocento a Vicenza da una famiglia di lapicidi trasferitasi in città nella prima metà del secolo dalle alte terre lombarde e, più precisamente, dalla zona del lago di Como. A quel tempo, un diffuso processo di rinnovamento urbano, agevolato dalla pacifica dedizione a Venezia nel 1404, aveva favorito l’arrivo, ai piedi di Monte Berico, di maestranze ‘foreste’ per le quali le occasioni di ingaggio non difettavano. Gli antenati del Grandi avevano dunque trovato varie possibilità di impiego e si erano inserite nel locale ambiente di muratori e lapicidi. Questa, se vogliamo, è la preistoria di Vincenzo, che probabilmente esordì, al fianco dei familiari, già nei cantieri vicentini. Per la sua formazione e per le sue sorti professionali si rivelò però fondamentale il trasferimento nella vicina Padova, al principio del Cinquecento. Nel capoluogo euganeo, tra il primo e il secondo decennio del secolo, Vincenzo lavorò a stretto contatto col fratello maggiore Gian Matteo, padre di quel Gian Gerolamo che dello zio diventerà, in seguito, il principale, più fidato e più dotato allievo e collaboratore. Nei primi anni padovani, i fratelli Grandi – Gian Matteo e Vincenzo – operarono principalmente nel campo dell’edilizia privata, accreditandosi presto presso una committenza qualificata, costituita da personalità di primo piano dell’intellighenzia patavina, come ad esempio Antonio Maggi da Bassano, giureconsulto impegnato, per conto della Serenissima, nell’amministrazione di varie città nei Domini di Terraferma quali la stessa Crema.

Questi sono però anche e soprattutto gli anni in cui Vincenzo Grandi lega indissolubilmente i propri destini a quelli di uno degli artisti più influenti nella cultura occidentale moderna: Andrea Palladio, che il nostro scultore tenne a battesimo, come ‘padrino al fonte’, nel novembre del 1508.

Quando entra in scena Gian Gerolamo e come si configura la sua collaborazione con lo zio?

Nato nel 1508, proprio come il Palladio, Gian Gerolamo entra in scena nell’ambito del più importante incarico ottenuto dai Grandi seniores– ovvero il papà Gian Matteo e lo zio Vincenzo – nella prima fase della loro carriera. Siamo all’aprirsi degli anni Venti del Cinquecento e ci troviamo a Padova, nella prestigiosa cornice della Basilica del Santo. Qui i nostri scultori sono chiamati a eseguire il monumento funebre al francescano Antonio Trombetta, a lungo professore presso la locale Università. A firmare il contratto di allogazione della tomba è Vincenzo; le carte d’archivio ricordano però sia pagamenti a favore dei due fratelli singolarmente sia compensi che il solo Vincenzo doveva al fratello Gian Matteo e al nipote Gian Gerolamo. Questi documenti sono fondamentali non solo perché fissano gli estremi cronologici del debutto di Gian Gerolamo, ma anche perché paiono dimostrare come già allora Vincenzo si fosse ritagliato per sé il ruolo di capobottega. Un ruolo, questo, in virtù del quale svolse una funzione di riferimento e di guida rispetto al nipote: con lui strinse uno speciale sodalizio lavorativo e di vita. Col passare del tempo, il rapporto fra i due divenne davvero simbiotico. Dagli anni Trenta del Cinquecento condividevano la stessa abitazione a Padova e, poco prima della metà del secolo, Gian Gerolamo si emancipò persino dal padre, rinsaldando così, anche formalmente, il legame con lo zio. La prematura morte del nipote, nel 1560, lasciò Vincenzo in uno stato di grande prostrazione tanto da spingerlo a ridurre di molto, se non proprio a interrompere, l’attività artistica.

Tutto questo rende spesso molto complicato, specie nei lavori eseguiti in équipe, distinguere nettamente le rispettive responsabilità. Entrambi compaiono, nei documenti, tanto come lapicidi quanto come bronzisti, talvolta, benché più di rado, come architetti, mentre la qualifica di orefice spetta al solo Gian Gerolamo, il quale, evidentemente, doveva essere particolarmente versato anche nell’arte orafa.

Gli studi degli ultimi anni sembrano dimostrare l’importante influenza esercitata dall’arte di Andrea Briosco detto il Riccio sui Grandi. In quali monumenti hanno collaborato?

La prossimità ad Andrea Briosco, detto il Riccio per via della sua zazzera riccioluta, vero campione della bronzistica padovana nei primi decenni del Cinquecento è fondamentale per i Grandi e consentirà loro di accostarsi alle tecniche della fusione e di affermarsi anche come bronzisti. Di sicuro Vincenzo, Gian Matteo e Gian Gerolamo Grandi collaborarono con Andrea nel già ricordato Monumento Trombetta. La parte scultoreo-architettonica della grandiosa edicola lapidea addossata alla controfacciata del Santo di Padova spetta ai Grandi, mentre l’intenso busto ritratto del defunto, il francescano Antonio Trombetta, è opera del Riccio.

Uno dei lavori più interessanti di Andrea Briosco è il Monumento Della Torrenella chiesa veronese di San Fermo Maggiore. Commissionato non prima del 1515, il mausoleo accoglie i resti mortali di Gerolamo e del figlio Marcantonio Della Torre, insigni clinici e protagonisti della scienza medica tra Quattro e Cinquecento. Il padre, docente all’Università di Padova, vantava tra i suoi pazienti Caterina Cornaro, regina di Cipro, mentre Marcantonio fu professore presso l’ateneo padovano e, poi, a Pavia, dove conobbe e frequentò Leonardo avviando col maestro toscano un valido scambio di conoscenze nel campo della ricerca e dei rispettivi studi anatomici. Venendo al monumento, che si presenta isolato rispetto allo spazio circostante, sono del Riccio la paternità progettuale e gli otto rilievi in bronzo che, sostituiti da copie in galvanoplastica dopo che Napoleone si portò gli originali a Parigi a fine Settecento, decorano le pareti dell’arca, posta al sommo dell’architettura commemorativa, concepita secondo una tipologia decisamente insolita in area veneta e più vicina a precedenti lombardi. A lungo esclusa dal dibattito critico, la questione di chi possa avere materialmente scolpito la decorazione lapidea del mausoleo è stata rilanciata in occasione della mostra che, nel 2008, in contemporanea con un’analoga iniziativa a New York, ha celebrato Andrea Riccio a Trento, sua città natale. Andrea Bacchi e Luciana Giacomelli, curatori della mostra trentina, hanno convincentemente proposto, assieme ad Andrea Tomezzoli, di candidare Vincenzo Grandi quale responsabile dell’esecuzione degli squisiti partiti in marmo, bronzino, porfido e serpentino, scolpiti con una non scontata finezza in collaborazione – è da credere – col fratello Gian Matteo.

Oltre che alla produzione monumentale i Grandi si dedicarono alla realizzazione di opere di piccolo formato, i cosiddetti bronzetti.

Eh sì, i Grandi furono sia scultori su scala monumentale sia fonditori di opere di piccolo e/o piccolissimo formato. Mi riferisco in particolare non tanto ai ‘bronzetti’, quanto, più propriamente, ai ‘bronzi d’uso’. Questione sottile, mi si dirà, ma se per bronzetti s’intendono in genere piccole sculture in bronzo, sarà bene sottolineare come la produzione fusoria grandiana, almeno per quelle che sono le nostre attuali conoscenze in materia, contempli essenzialmente oggetti d’uso, confezionati appunto in bronzo. Si tratta di picchiotti, ossia di arnesi che servono a picchiare su porte e portoni, ma anche di piccoli rinfrescatoi e di calamai: manufatti onnipresenti sulle mense e sulle scrivanie della buona società del tempo. Il catalogo dei Grandi, però, annovera soprattutto campanelli da tavolo, che i nostri artisti produssero a livello quasi seriale e che sono assolutamente peculiari del loro atelier. Questo tipo di oggetti compare spesso nei testi pittorici del passato, alcuni dei quali sono talmente iconici da essere letteralmente ‘stampati’ nell’immaginario collettivo: penso al ritratto di Leone X coi cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi, eseguito da Raffaello e conservato oggi nelle collezioni museali fiorentine. Sopra la scrivania alla quale il pontefice sta seduto, è appoggiato anche un campanello elegantemente decorato e corredato di una nappa in velluto rosso che funge da presa. Come questo dipinto chiarisce molto meglio delle mie parole, simili bronzi costituivano dei veri e propri segni di rango, simboli di statuse di potere e ciò non vale solo per l’epoca di Raffaello. Se ci pensiamo un attimo, quale atto segna formalmente il passaggio di consegne e, per l’appunto, di potere fra il presidente del Consiglio uscente e quello entrante all’inizio di una nuova legislatura? Ebbene… proprio la cerimonia della campanella: lo strumento con cui ilpremierdà avvio alle sedute del Consiglio dei ministri e li tiene a bada durante le riunioni. Corsi e ricorsi storici, si potrebbe dire, oppure, se vogliamo, l’eterna contemporaneità dell’arte e della storia dell’arte!

L’opera più celebre dei nostri scultori non si trova in Veneto, ma a Trento.

Sì, è la cantoria,la balconata in marmo e pietra locale con busti in bronzo, posta a sostegno dell’organo nel presbiterio nella chiesa di Santa Maria Maggiore, che accolse molte delle congregazioni nell’ultima fase dei lavori del Concilio tridentino. Nella città alpina Vincenzo e Gian Gerolamo giunsero all’inizio degli anni Trenta del Cinquecento per lavorare agli arredi del Magno Palazzo, la nuova residenza eretta dalle fondamenta per volere del principe vescovo Bernardo Cles, munifico prelato e signore territoriale, elevato nel 1530 alla porpora cardinalizia. Tornando alla cantoria, essa rappresenta il capolavoro grandiano e, sebbene sia al di fuori degli storici confini della Repubblica di San Marco, è uno dei più rilevanti monumenti della scultura rinascimentale veneta, ove giungono felicemente a maturazione le precedenti esperienze artistiche dei nostri e, soprattutto, di Vincenzo, che non a caso vi appose, orgoglioso, la propria firma. In origine, l’organo sistemato sopra la tribuna era impreziosito da ante di Girolamo Romanino, finite distrutte in un rovinoso incendio nel 1819. I padri conciliari e quanti, nei primi due secoli e mezzo dopo la realizzazione di quest’impegnativa impresa, visitarono la chiesa di Santa Maria Maggiore si erano dunque trovati davanti a un autentico Gesamtkunstwerk, ossia a un’opera d’arte totale, ove i pannelli scolpiti dai Grandi e dalla loro équipe, zeppi di rimandi all’antichità pagana, convivevano con le perdute scene dipinte dal Romanino, illustrantiAdamo ed Eva, la Scala di Giacobbe, il Roveto ardente, la Visitazione di Maria a Elisabettae laPresentazione di Gesù al tempio. Sono tutte immagini che possono essere interpretate in chiave mariana a esaltare, come pure fanno i due altorilievi marmorei con l’Adorazione dei Pastorie l’Epifania eseguiti da Vincenzo e Gian Gerolamo, la centralità della Vergine e la sua partecipazione al disegno salvifico di Dio in quanto madre del Salvatore. Un fatto, questo, che si carica di particolari significati se si considerano le accuse di Mariolatrìa e il ridimensionamento del peso teologico della Madonna che in quegli anni portavano avanti Lutero e i suoi seguaci e se si pensa che il committente della cantoria, il facoltoso mercante trentino Antonio Ciurletti, dopo avere maturato un personalissimo dissenso religioso e dopo avere subito due processi per eresia, fuggì in Valtellina, dove morì esule religionis causa.