LIBRERIA CREMASCA – Mercoledì “Storici dell’arte in Museo”. L’intervista

Mercoledì 9 settembre, alle ore 17,30, nel salone Giovan Pietro da Cemmo (Centro Culturale Sant’Agostino, piazzetta Winifred Terni de Gregory, 5 – 26013 Crema), torna la rassegna dedicata agli storici dell’arte promossa dalla Libreria Cremasca. Dopo gli eventi ospitati in Palazzo Vescovile, Sala Musicale Giardino e CremArena, questa volta l’incontro si terrà nel salone Giovan Pietro da Cemmo, in collaborazione con il Museo Civico di Crema e del Cremasco. L’iniziativa rientra nell’accordo fra Comune di Crema, librerie e case editrici cremasche sancito con la sottoscrizione del Patto per la lettura della Città di Crema.

Il diciasettesimo appuntamento della rassegna Storici dell’arte in Museo, vedrà come ospiti Andrea Nante(direttore del Museo Diocesano di Padova), Carlo Cavalli (conservatore del Museo Diocesano di Padova) e Aldo Galli (Università degli Studi di Trento). Interverrà inoltre Alessandro Barbieri(conservatore del Museo Civico di Crema e del Cremasco). Gli studiosi presenteranno A nostra immagine. Scultura in terracotta del Rinascimento da Donatello a Riccio, catalogo della mostra (Padova, 15 febbraio – 27 settembre 2020), a cura di A. Nante, C. Cavalli, A. Galli, Scripta Edizioni, Verona 2020.

Li intervistiamo in esclusiva per “Il Nuovo Torrazzo”.

A tutti e tre chiediamo qual è stato il vostro percorso di studi e cosa vi ha portato a occuparvi di storia dell’arte.

Andrea Nante: mi sono sempre chiesto in quale altro modo l’essere umano comunichi oltre alla parola. Da piccolo ero attratto dal disegno e dalla capacità rappresentativa del mezzo grafico, in seguito furono gli insegnanti del liceo a incuriosirmi e ad appassionarmi ai grandi maestri dell’arte e agli scrittori che per primi ne parlarono. I viaggi con gli amici mi fecero conoscere l’Italia e lo straordinario e fragile patrimonio presente in ogni parte della nostra penisola, cominciavo a registrare le prime contraddizioni. E così gli studi universitari mi portarono prima a Venezia, e poi a Udine e Milano per approfondire sì la storia dell’arte ma anche tutto ciò che consente di trasmettere le testimonianze artistiche alle future generazioni. L’interesse per la ricerca era fortemente unito a quello di conservazione delle opere esistenti, e in tal senso il desiderio di comunicare e divulgare la conoscenza sulle stesse testimonianze mi orientava verso un indirizzo ben preciso, quello museale. Il museo era indubbiamente il luogo dove avrebbero trovato espressione le mie prime istanze.

Carlo Cavalli: mi hanno sempre affascinato le immagini e quello che possono raccontare, e mi sono sempre chiesto perché ciò che è ritenuto “bello” in una certa epoca non lo sia per un’altra, e quanta importanza ha la visione del mondo, la cultura visiva, l’educazione dell’occhio di chi guarda nel determinare queste differenze. Perciò la “storia” dell’arte, la ricerca delle ragioni per cui ciò avviene, mi sembrava una possibile strada da percorrere. Poi gli studi mi hanno portato ad occuparmi di storia dell’oreficeria, un’arte cosiddetta minore che in qualche modo racchiude in sé, “miniaturizzandole”, le arti maggiori (scultura, pittura, architettura) caricandosi spesso di molti significati simbolici. Il lavoro al Museo Diocesano poi, attraverso le opere della collezione del museo, mi ha permesso di ampliare i miei orizzonti alla pittura e soprattutto negli ultimi anni alla scultura.

Aldo Galli: ho sempre provato una spiccata inclinazione per le immagini del passato, per le storie che rappresentano ma anche per le forme che pittori e scultori adottano per narrarle. Potrei far risalire questo interesse ai primi viaggi fatti con mia madre a Firenze o a Venezia, al fascino misterioso ma irresistibile esercitato dai grandi musei, alle prime mostre visitate un po’ inconsapevolmente. È un interesse che ho messo meglio a fuoco, insieme ad alcuni amici, negli anni del liceo, e che infine ha preso compiutamente forma all’Università di Siena, dove mi sono laureato nel 1991 con Luciano Bellosi, che ha avuto un ruolo determinante nel porre le basi dello storico dell’arte che sono oggi. C’è stato poi il Dottorato di ricerca a Torino, quindi vari anni di borse di studio, di insegnamenti a contratto, un periodo – molto bello e formativo – trascorso a Genova, in Soprintendenza… finché, nel 2005, sono entrato come ricercatore all’Università di Trento vincendo un concorso; e da allora insegno con grande soddisfazione in quell’Ateneo.

La diocesi di Crema è purtroppo priva di un museo diocesano. L’invidia aumenta quando si vede un museo ottimamente gestito come quello di Padova, inteso come officina dove le opere vengono studiate, restaurate, raccontate attraverso mostre di alto livello scientifico per poi tornare nelle chiese di provenienza. Quando è nato il vostro museo e quali sono le sue peculiarità?

Il Museo Diocesano di Padova, nella sua configurazione attuale, apre al pubblico nel 2000, per iniziativa del vescovo Antonio Mattiazzo e grazie ai fondi stanziati dallo Stato per l’anno giubilare, con i quali vengono recuperati alcuni ambienti del palazzo Vescovile, tra cui il piano nobile con il Salone dei vescovi, le sale dell’appartamento Pisani e le Gallerie al piano terra, che utilizziamo come spazio espositivo. Come ogni museo diocesano, esiste non soltanto come ricovero di opere che per motivi di sicurezza o conservativi non possono più stare nelle parrocchie, ma ha precise finalità pastorali: far comprendere il patrimonio culturale della Chiesa locale, nei suoi valori storico artistici e nei suoi contenuti, al pubblico più vasto possibile. Per questo è fondamentale il rapporto del Museo con il territorio e con le comunità, che sono al tempo stesso eredi di questo patrimonio e destinatarie del suo messaggio. Le attività che abbiamo organizzato in questi primi vent’anni di vita del Museo hanno sempre cercato di unire l’aspetto della conservazione, quello dello studio e della conoscenza e quello della valorizzazione, intesa come una sempre migliore comprensione del nostro patrimonio artistico, nel quale affondano le nostre radici e che contribuisce a definire ciò che oggi siamo.

Cos’è il progetto “Mi sta a cuore” e in che modo è legato alla mostra?

Mi sta a cuore” è un formatche abbiamo messo a punto negli ultimi anni – con questo progetto dedicato alle terrecotte è giunto alla terza edizione – e che nasce come campagna di raccolta fondi per il restauro di una o più opere del territorio, attraverso una serie di attività (visite al cantiere di restauro, conferenze, approfondimenti) che puntano a coinvolgere attivamente le comunità, a cominciare da quelle a cui le opere appartengono, per renderle consapevoli e responsabili del loro patrimonio. In questo modo conservazione, conoscenza (frutto del restauro, sempre preceduto da indagini conoscitive) e divulgazione sono strettamente legate. Naturale conclusione del progetto è la mostra, nella quale le opere restaurate vengono presentate – con il racconto delle analisi e degli interventi di restauro, in genere attraverso apparati multimediali – e inserite in un percorso più ampio, che consenta di contestualizzarle storicamente, di confrontarle con altre opere e di affrontare quei temi trasversali che soltanto una mostra consente di fare.

Com’è nata l’idea di questa mostra e quali sono le sue caratteristiche?

Scolpire, o meglio modellare la terracotta (e altri materiali plastici) diventa quasi una moda nel Quattrocento nella Pianura Padana, dopo che Ghiberti, Donatello e altri protagonisti del Rinascimento avevano riscoperto e riportato in auge la tecnica già agli inizi del secolo. A Padova dalla metà del Quattrocento fu Donatello, con la sua affollata bottega, a dare impulso decisivo a questa produzione, che grazie anche al basso costo del materiale faceva fronte alla crescente domanda di immagini per la devozione privata e per l’arredo degli altari. Un patrimonio di immagini che oggi sono in gran parte distrutte o disperse in musei e collezioni private, ma che in parte ancora si conservano nelle chiese della città e del territorio, spesso trascurate e quasi dimenticate: eppure proprio questi “relitti” di un immane naufragio ci sembravano i capisaldi da cui partire per raccontare una grande stagione della storia dell’arte padovana, e per ricostruire il clima culturale e devozionale nel quale sono state create. Negli ultimi decenni non sono mancate le mostre sulla scultura padovana del Rinascimento, ma la terracotta è un mezzo espressivo con sue caratteristiche peculiari, che ci sembrava meritasse un’attenzione particolare, anche alla luce degli studi degli ultimi anni e delle attività di restauro condotte dalla Soprintendenza.

La mostra, allestita al termine dei restauri di ben quattro sculture, di cui una completamente inedita, è concepita come un percorso che prende le mosse dalla presenza in città di Donatello e dall’attività dei suoi seguaci diretti alla metà del secolo, per proseguire con i protagonisti della plastica fittile del secondo quattrocento a Padova, quali Bartolomeo Bellano, Giovanni de Fondulis e naturalmente Andrea Riccio, la cui attività matura si estende per un trentennio dentro il Cinquecento. Attraverso le opere, oltre a raccontare gli autori e il loro stile, la mostra affronta di versi temi: l’iconografia e la devozione (dalla Madonna col Bambinoai Compianti su Cristo morto), la funzione e la destinazione delle immagini, la replica e la diffusione di modelli, la fragilità la dispersione e la distruzione dei materiali, l’importanza della conservazione e della conoscenza anche attraverso il restauro.

Quali sono le principali novità emerse dagli studi svolti in occasione della mostra?

In mostra sono esposti tre opere inedite, che sono attribuite a Giovanni de Fondulis e al meno noto Antonio Antico. Inoltre, un rilievo del Bargello tradizionalmente assegnato a un allievo di Donatello ha trovato qui una convincente attribuzione a Pietro Lombardo, artista che passando giovane per Padova non poté non guardare all’eredità lasciata da Donatello in città. Ma non si tratta solo di attribuzioni: lo studio che ha preceduto la mostra ci ha portato nelle chiese e negli oratori di campagna, dove si conservano ancora immagini in terracotta che al momento non è possibile riferire con certezza a un autore, ma che sono uscite probabilmente dalle stesse botteghe da cui uscivano i capolavori più noti. Cercare di raggruppare queste opere in base ai caratteri dello stile, studiarne le tipologie, la trasmissione di modelli iconografici (anche tra pittura e scultura) è un lavoro ancora in corso che ha dato risultati in occasione della mostra ma che altri ne darà certamente in futuro, a chi vorrà e potrà proseguire questo lavoro.

Il catalogo è corredato da un “Atlante della scultura padovana in terracotta del Rinascimento”. Di che cosa si tratta?

Proprio come strumento di lavoro è stata pensata l’ultima parte del catalogo della mostra: un censimento delle opere in terracotta comprese tra la metà del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento, ancora presenti nel territorio, e riferibili alla produzione padovana. È una mappatura, estesa in parte anche alle diocesi limitrofe, dove a una buona fotografia sono associati i dati materiali dell’opera e una bibliografia essenziale, che è partita dal fondamentale lavoro di inventariazione dei beni culturali ecclesiastici promosso dalla Conferenza Episcopale Italiana e concluso dalla Diocesi di Padova una decina di anni fa, e che si è arricchita con le scoperte effettuate in occasione di questa mostra. Un repertorio a uso degli studiosi, senza pretesa di completezza perché nuove scoperte, come ci sono state in questa occasione, potranno esserci in futuro, insieme a nuove valutazioni critiche e attribuzioni; ma anche a uso delle comunità che conservano ancora le opere, perché comprendano che l’immagine che custodiscono è parte di un patrimonio più ampio, il capitolo di quella storia che attraverso la mostra (e il catalogo, naturalmente) abbiamo cercato di raccontare.

Uno dei protagonisti della mostra è il plasticatore cremasco Giovanni de Fondulis, padre del più noto Agostino. Quali sono le novità emerse negli ultimi anni su questo scultore?

Giovanni de Fondulis si è rivelato la vera scoperta della mostra, più di quanto avessimo immaginato quando abbiamo cominciato a progettarla. Come è noto, la sua figura è stata messa a fuoco soprattutto in anni recenti, in particolare dopo la pubblicazione del documento che consente di attribuire a lui con certezza la pala con il Battesimo di Cristo e due Profetiora al Museo Civico di Bassano del Grappa, e di ancorarla alla data 1474. Ma i materiali attribuibili all’attività sua e della sua bottega a Padova sono molti, spesso conservati in collezioni private e in musei europei e statunitensi, e fondamentale è stato per noi il lavoro di Marco Scansani, che ha dedicato a Giovanni de Fondulis la sua tesi di dottorato alla Scuola Normale di Pisa, e che ha collaborato al nostro progetto.

La mostra tiene conto di queste ultime ricerche e le opere esposte tentano di delineare un percorso all’interno della carriera di Giovanni, dalle prime prove padovane (le Madonne“sorelle” di San Nicolò e di Santa Giustina) alla maturità (gli anni Settanta) fino alla tarda attività, che si intreccia con un altro nodo critico non ancora sciolto del tutto, ovvero la formazione e la prima attività di Andrea Riccio. Alcune delle opere inedite emerse durante il progetto (esposte in mostra oppure segnalate dell’Atlante) si riferiscono proprio alla tarda attività di Giovanni, offrendo quindi un contributo molto importante alla comprensione del panorama della scultura a Padova negli ultimi due decenni del Quattrocento.

Prof. Galli, nel catalogo è presente un suo saggio, a quattro mani con Matteo Facchi (Società Storica Cremasca), che presenta tre sculture inedite conservate in chiese del Cremasco e del Lodigiano, di cosa si tratta?

Gli studi degli ultimi decenni hanno dimostrato come Crema, nel Quattrocento, sia stata un centro fondamentale per la diffusione in Italia settentrionale della scultura in terracotta (quella che si chiamerebbe, propriamente, ‘coroplastica’). La modellazione di statue e rilievi in argilla, estranea alle consuetudini della scultura medievale, aveva fatto la sua ricomparsa a Firenze nei primi anni del Quattrocento, e solo a partire dal 1430 circa aveva preso piede a nord degli Appennini, incontrando particolare fortuna soprattutto entro il triangolo Lodi-Cremona-Brescia.

Oggi non è così facile rendersi conto dell’importanza di questa produzione a Crema, per varie ragioni: dalla fragilità intrinseca del materiale al mutamento del gusto del pubblico e dei fedeli, che – soprattutto tra Seicento e Ottocento – ha spesso indotto a sostituire queste immagini sugli altari con dipinti o opere lignee più ‘alla moda’, col risultato che molte terrecotte quattrocentesche sono state vendute e sono finite all’estero. Inoltre, quando queste sculture sono sopravvissute nelle terre d’origine, magari perché particolarmente care alla devozione popolare o considerate miracolose, esse sono state ridipinte e ritoccate così tante volte da rendere il loro aspetto attuale molto diverso da quello originale.

Le tre sculture che presentiamo nel saggio pubblicato nel catalogo della mostra sono estremamente indicative in tal senso: la venerata Madonna in trono col Bambinodi Abbadia Cerreto è così sfigurata nel viso e nelle vesti dagli strati di colore sovrapposti all’originale nel corso dei secoli da sembrare oggi quasi più una bambola moderna che una statua del Quattrocento. Tuttavia, l’occhio allenato di Matteo Facchi ha saputo riconoscere al di sotto dei rifacimenti la mano del più importante scultore in terracotta attivo nell’area cremasca attorno alla metà del Quattrocento, il cosiddetto ‘Maestro degli angeli cantori’. Con questo nome si indica l’autore di un nutrito gruppo di opere, tutte in terracotta, per la maggior parte finite nei musei d’Europa (a Parigi, a Berlino, a Londra…), ma di cui si conservano ancora alcuni pezzi significativi tra Crema e il Bresciano.

Lo stesso scultore è autore anche della elegante ed espressiva Santa Lucia della parrocchiale di Madignano, un’opera di qualità davvero molto alta che potrebbe giungere dall’altare intitolato a questa santa martire che esisteva nella Cattedrale di Crema.

Di attribuzione più difficile è la bella Madonna in trono col bambinoche si trova oggi all’interno di una nicchia alla sommità della facciata della chiesa di Rubbiano. Tanto nella composizione quanto nei tipi umani, essa appare così vicina alle più antiche opere lasciate a Padova dal cremasco Giovanni de Fondulis, da far sospettare che possa trattarsi di un suo lavoro giovanile, realizzato prima del trasferimento dell’artista in Veneto. Impossibile però sciogliere i dubbi senza studiare l’opera da vicino. In questo come negli altri casi, una mirata campagna di restauri che garantisca la migliore conservazione di queste importanti testimonianze della storia dell’arte cremasca e le restituisca al godimento di tutti è estremamente auspicabile.