Storici dell’arte in libreria. Presso la sede di Palazzo Terni de’ Gregorj, il Procaccini

Sabato 12 marzo  alle ore 17 nella nuova prestigiosa sede in Palazzo Terni de’ Gregorj (via Dante Alighieri, 20 – Crema) si terrà il ventunesimo appuntamento della rassegna ‘Storici dell’arte in libreria’ organizzata dalla Libreria Cremasca.Ospite sarà Odette D’Albo, conservatrice delle collezioni d’arte Credem, coautrice (con Hugh Brigstocke) del volume Giulio Cesare Procaccini. Life and work, Allemandi – Voena, Torino 2020. La intervistiamo in esclusiva per il sito de “Il Nuovo Torrazzo”.

Dottoressa, qual è stato il suo percorso di studi e cosa l’ha portata a occuparsi di storia dell’arte?

La mia passione per l’arte è nata da bambina, avevo sette anni, mi ero trasferita da poco a Reggio Emilia da San Severino Lucano, in Basilicata. Ricordo che in quel periodo di adattamento alla nuova realtà mi piaceva molto sfogliare alcuni libri sui musei del mondo che avevamo in casa. Mia sorella intuì questo mio interesse, quindi mi portò qualche volta con lei a vedere alcune mostre e anche a scuola apprezzavo moltissimo le visite ai luoghi d’arte che facevamo durante le gite scolastiche. Dopo il liceo classico pensai inizialmente a una laurea in Lettere Moderne, all’Università di Bologna, ma in realtà ciò che mi appassionava di più era l’arte, quindi dopo il triennio decisi di iscrivermi alla specialistica in Storia dell’Arte all’Università Cattolica di Milano, dove ho iniziato a studiare pittura lombarda del Seicento, in particolare Giovanni Stefano Montalto. Ho proseguito il mio percorso con una borsa di studio alla Fondazione Roberto Longhi di Firenze, dove sono stata seguita nelle ricerche dalla prof.ssa Mina Gregori, una grande studiosa, rigorosa e severa, ma anche molto generosa, una vera maestra. In seguito ho vinto il dottorato di ricerca presso l’Università Cattolica di Milano, con la quale collaboro tuttora come cultore della materia. Ho deciso allora di cimentarmi nello studio di Giulio Cesare Procaccini, uno dei protagonisti della pittura del primo Seicento lombardo, ero affascinata dalla bellezza dei suoi dipinti e intravedevo margini di ricerca molto ampi. Durante il dottorato ho iniziato anche a lavorare come assistente al conservatore della collezione d’arte del Credem di Reggio Emilia e dal 2016, contemporaneamente al conseguimento del titolo di dottore di ricerca, ne sono diventata responsabile.

 Il libro è scritto a quattro mani con Hugh Brigstocke. Come vi siete divisi il lavoro e com’è strutturato il volume?

Quasi alla fine del dottorato sono stata contattata da Marco Voena per lavorare insieme a Hugh Brigstocke, che aveva dedicato importanti studi a Procaccini a partire dagli anni settanta, al catalogo ragionato dei dipinti dell’artista. È stato un progetto complesso, ma avevamo una visione comune del pittore che ci ha permesso di collaborare nonostante lo scarto generazionale e qualche divergenza sulle attribuzioni, che emerge nelle schede ma non è stata tale da compromettere il risultato finale. Il libro è strutturato come una monografia classica. Ognuno di noi ha scritto due saggi, ai quali seguono le sezioni scritte a quattro mani: schede dei dipinti autografi, delle copie da originali perduti e delle attribuzioni respinte. In chiusura del volume abbiamo inserito una cronologia del pittore e un’ampia sezione di opere perdute o non identificate, che speriamo possa essere utile agli studi futuri. Per quanto riguarda i saggi, Brigstocke ha lavorato sullo stile dell’artista e sulla sua tecnica pittorica, mentre io mi sono dedicata alla fortuna critica di Procaccini e al rapporto con committenti e collezionisti suoi contemporanei.

Quella dei Procaccini è una famiglia interamente dedita alle arti figurative. Quali sono le loro origini e cosa sappiamo degli esordi di Giulio Cesare?

I Procaccini sono una vera a propria “dinastia” di pittori. Il capostipite è Ercole Procaccini, che nasce a Bologna nel 1520, si forma con Prospero Fontana e lavora in molti centri dell’Emilia. Nel 1561, durante la sua attività a Parma, dove stava lavorando alle ante d’organo del Duomo, una commissione molto prestigiosa, nasce Camillo, figlio di Nera Sibilla, sua seconda moglie, mentre Carlo Antonio e Giulio Cesare, sarebbero nati rispettivamente nel 1571 e nel 1574, dalla terza moglie, Cecilia Cerva. I Procaccini non erano però l’unica famiglia di artisti nella Bologna del tempo ma, come ben noto, negli anni ottanta del Cinquecento iniziavano a farsi strada anche i Carracci. In cerca di migliori opportunità lavorative, al seguito del figlio Camillo, che aveva ricevuto la commissione della decorazione del ninfeo di Lainate da Pirro I Visconti Borromeo, i Procaccini nel 1587 si trasferiscono a Milano, dove si stabiliscono in maniera permanente. L’ultimo erede della famiglia, Ercole il Giovane, figlio di Carlo Antonio, nasce infatti a Milano nel 1605. Da lui, nel 1667, si sarebbe recato in visita Carlo Cesare Malvasia per raccogliere notizie sulle vite del nonno, del padre e degli zii da inserire nella sua Felsina Pittrice. Ritornando al momento dell’approdo in Lombardia, Pirro I Visconti Borromeo di fatto sembra quasi adottare la famiglia Procaccini e, oltre a Camillo, promuove anche Giulio Cesare, che inizia a lavorare come scultore, verosimilmente prima nel ninfeo di Lainate, poi in Duomo e in Santa Maria presso San Celso a Milano.

Dunque le prime opere note di Giulio Cesare sono delle sculture. In seguito abbandonerà completamente quest’arte per la pittura?

In realtà Procaccini non smetterà mai di esercitare l’attività di scultore, nonostante la sua produzione in questo campo rallenti molto dopo l’inizio del Seicento, verosimilmente quando si rende conto di essere molto più dotato come pittore. Il suo primo autoritratto noto, databile ai primi anni del Seicento, è un dipinto in un certo senso “programmatico”, perché Giulio Cesare si raffigura con la tavolozza e i pennelli, simboli del nuovo corso intrapreso. A indicare, però, come la scultura non sarà mai abbandonata del tutto, si possono citare alcuni importanti incarichi eseguiti nei decenni seguenti. Ad esempio, nel 1612 viene convocato a Parma alla corte dei Farnese, dove esegue il modello per una delle statue equestri dei duchi Ranuccio e Alessandro destinate a Piacenza, in concorrenza con Francesco Mochi, che poi otterrà la commissione dei noti ‘Cavalli’. Un caso particolare è rappresentato da due statue destinate al Duomo di Cremona, un San Giovanni e un San Matteo, commissionate nel 1597 e consegnate dall’artista, dopo lunghe vertenze, addirittura nel 1625, poco prima della morte.

Quali sono i cantieri più importanti dei primi anni di attività di Giulio Cesare?

All’inizio della sua carriera di pittore, a partire circa dal 1602, Procaccini lavora intensamente dipingendo affreschi e tele nelle cappelle della Pietà e dei Santi Nazaro e Celso in Santa Maria presso San Celso a Milano, dove sarà attivo fino al 1610, quando licenzierà il San Sebastiano curato dagli angeli, approdato in seguito ai Musei Reali di Bruxelles. In questo cantiere, come avverrà verosimilmente in tempi non lontani nella chiesa della cappuccine di Santa Prassede, sempre a Milano, Giulio Cesare si confronta con il più importante pittore lombardo del tempo, Giovan Battista Crespi detto il Cerano. Indicativo del fatto che, sin da questi anni, i due maestri siano riconosciuti come i più autorevoli sulla scena milanese, nel 1605 entrambi vengono scelti per decorare la cappella del Tribunale di Provvisione. Dei dieci dipinti che gli vengono commissionati per la cappella, Giulio Cesare licenzierà a breve termine, già nel 1606, il San Barnaba e verosimilmente alcuni anni dopo il San Sebastiano, mentre porterà a termine solo nel 1620 il Costantino riceve i sacri chiodi della Passione di Cristo, conservato oggi, insieme agli altri, al Castello Sforzesco di Milano.

Un ruolo molto importante per la sua fortuna lo gioca il nobile genovese Giovan Carlo Doria.

Giulio Cesare incontra verosimilmente Giovan Carlo Doria nel 1611, reduce dal successo ottenuto per l’esecuzione dei sei quadroni con i Miracoli di san Carlo Borromeo tuttora nel Duomo di Milano, parte di una serie di grandiosi dipinti realizzati anche da altri artisti, tra i quali Cerano, per la canonizzazione dell’arcivescovo, avvenuta nel 1610. Il patrizio genovese era un uomo di cospicue ricchezze, figlio del doge Agostino Doria. Il legame tra Procaccini e il committente era nato, ancora una volta, sotto gli auspici della famiglia Visconti Borromeo: il figlio di Pirro I, Fabio II, era infatti cognato di Giovan Carlo Doria. Il nobile genovese si appassionò moltissimo alla pittura di Procaccini, diventando il suo più grande committente e collezionista. Doria apprezzava in particolare gli “abbozzi” del pittore. Si tratta di dipinti eseguiti con assoluta rapidità e dall’aspetto non finito, che proseguono una tradizione inaugurata già da Parmigianino nella fase tarda della sua carriera, non intese come preparatorie in vista di una prova di maggiori dimensioni, ma come opere d’arte per se stesse. Grazie ai dipinti presenti nella collezione Doria a Genova, Giulio Cesare poté inoltre approfondire lo studio dello stile di Rubens, altro suo grande punto di riferimento. L’attività di Procaccini per il patrizio genovese è documentata da pagamenti costanti e dai tre inventari della raccolta, che permettono di identificare e datare molti capolavori, tra i quali spiccano la Fuga in Egitto di Capodimonte, il San Carlo in gloria della Pinacoteca di Brera, una serie di Apostoli oggi in gran parte presso i musei genovesi e altre opere ora disperse nei musei di tutto il mondo, come la magnifica Sacra Famiglia con San Giovannino oggi a Kansas City, l’Ecce Homo a Dallas e la Deposizione dalla Croce a Sydney. Della collezione Doria faceva parte anche il magnifico ritratto nella copertina del volume, che raffigura molto probabilmente Orsola Cecchini, in arte “Flaminia”, una vera “star” del teatro del primo Seicento.

Altro grande committente del pittore fu Pedro de Toledo Osorio governatore spagnolo di Milano dal 1615 al 1618.

Don Pedro de Toledo Osorio, V marchese di Villafranca del Bierzo, nipote del famoso viceré di Napoli, era giunto alla fine del 1615 a Milano come governatore per conto della corona di Spagna. Da sempre sensibile all’arte, già pochi mesi dopo il suo arrivo in Lombardia, nel gennaio 1616, il Toledo aveva commissionato a Procaccini una serie grandiosa di dipinti con episodi della vita e della Passione di Cristo, che poi inviò a Madrid nel 1618, insieme a un altro ciclo di tele con la Vita della Vergine, richiesta a Camillo. L’insieme rappresenta uno dei vertici assoluti della produzione di Giulio Cesare, che rivela qui una notevole attenzione verso la pittura veneziana, rivolta in particolare a Tiziano e a Tintoretto. I dipinti che lo compongono, dispersi dagli eredi del governatore nell’Ottocento, sono ora sparsi in musei, collezioni private e in altre istituzioni all’estero, tra le quali il Prado a Madrid, il Museum of Fine Arts di Boston, la National Gallery di Edimburgo.

Al governatore si deve, probabilmente, anche la commissione dell’opera più monumentale di Giulio Cesare: l’Ultima Cena per la basilica della Santissima Annunziata del Vastato a Genova.

L’Ultima Cena è un’opera maestosa, che Procaccini dipinse a Genova durante il 1618, soggiornando come ospite presso Giovan Carlo Doria. Considerate le sue dimensioni colossali, il dipinto sarebbe stato difficilmente trasportabile da Milano. L’ipotesi che la commissione si debba a Pedro de Toledo è una delle novità del libro. In precedenza si pensava che l’opera fosse stata richiesta da un imprecisato nobile milanese, che l’avrebbe donata come segno di gratitudine a un frate del convento annesso alla chiesa, grazie al quale era guarito da una malattia quasi mortale. A seguito di una rilettura dei documenti è emerso, invece, che la grande tela sarebbe stata offerta al frate da “un tal Gov[ernato]re di Milano”, identificabile, considerando il periodo del suo mandato, in Pedro de Toledo, che effettivamente, nell’autunno 1616, risulta essere stato gravemente malato. L’idea è resa plausibile anche dalla conoscenza dei gusti del nobile spagnolo: una commissione così imponente e prestigiosa è perfettamente in linea con la personalità del Toledo, che aveva già dimostrato in precedenza la sua predilezione per le imprese grandiose. Prima del suo arrivo in Lombardia, aveva infatti già radunato nel suo palazzo a Madrid un ciclo di novanta dipinti con Eremiti e circa quattrocento ritratti di “Imperatori et huomini illustri antichi”, commissionati a maestri fiamminghi. Nella dimora sarebbero in seguito giunti anche i cicli della vita della Vergine e di Gesù, richiesti a Camillo e Giulio Cesare Procaccini a Milano.

Non sono note opere del pittore in territorio cremasco. Il dipinto a noi più prossimo geograficamente è pala nella parrocchiale dei Santi Fermo e Rustico di Caravaggio, datata al 1615. Cosa può dirci di questo dipinto?

La grande tela raffigurante la Madonna con il Bambino e Santi Fermo e Rustico nella parrocchiale di Caravaggio è un dipinto cruciale nella carriera del pittore. È una grande pala “sperimentale”: Procaccini realizza un “abbozzo” di dimensioni monumentali e dimostra di aver trovato una cifra stilistica perfettamente autonoma, che riflette la tradizione emiliana di Correggio e Parmigianino unendola alla conoscenza della pittura di Rubens. L’opera è dipinta a tocchi vibranti di pennello, con una tecnica raffinatissima, che emerge nella resa preziosa dei panneggi, costruiti con improvvisi e magnifici bagliori di pittura rilucente. Magnifico è anche lo scudo retto dal putto in primo piano, un vero e proprio pezzo di bravura, non lontano da quello con il quale Procaccini si raffigura nell’Autoritratto al Museo Lechi di Montichiari, riprodotto nella locandina della presentazione. La grande tela di Caravaggio è molto significativa anche per quanto riguarda le circostanze della sua esecuzione: non ci sono ancora certezze documentarie, ma è probabile che il committente sia stato Muzio II Sforza Colonna, marchese di Caravaggio. Il nobile aveva infatti eletto la chiesa a suo luogo di sepoltura e l’anno dopo avrebbe fatto da tramite tra Procaccini e il governatore di Milano Pedro de Toledo, che era suo cugino.

L’opera più nota al grande pubblico è il cosiddetto ‘quadro delle tre mani’. Di cosa si tratta e chi ne fu il committente?

Il Martirio delle sante Rufina e Seconda alla Pinacoteca di Brera è il simbolo del primo Seicento lombardo. Soprannominato il “quadro delle tre mani” sin dal Seicento, è stato eseguito dai tre pittori più importanti attivi a Milano nel primo trentennio del secolo, Cerano, Morazzone e Giulio Cesare Procaccini. Al primo spettano il cavaliere a sinistra, il putto con il cane e la santa Seconda decapitata, al secondo lo sgherro posto al centro della scena e l’angioletto che reca in volo la palma del martirio, mentre il terzo è autore della santa Rufina che porge il collo al carnefice e del putto che le indica il cielo. L’opera, unica e originalissima, era stata commissionata dal nobile Scipione Toso forse con l’intento di promuovere una vera e propria gara tra i “campioni” della pittura lombarda del tempo. Le differenti “maniere” dei tre artisti erano state celebrate, in anni forse poco precedenti al 1621, in un passo di una notissima lettera inviata allo stesso Toso dall’erudito comasco Girolamo Borsieri: di Cerano venivano messe in luce l’ascendenza nordica e “la sodezza de’ nostri”, vale a dire le radici nella pittura lombarda del Cinquecento, in primis Gaudenzio Ferrari; di Morazzone “feroce e maestoso” era evocata la formazione nel centro Italia, mentre di Procaccini, che si era reso “prattico delle maniere illustrate dal Parmigiano [Parmigianino] e dal Correggio”, erano poste in rilievo le profonde radici emiliane.