CREMA – Sabato 2 febbraio, Storici dell’arte a Palazzo Vescovile

Sabato 2 febbraio alle ore 16,30 nella Sala Rossa del Palazzo Vescovile (piazza Duomo a Crema) si terrà il secondo incontro della sessione invernale della rassegna Storici dell’arte in Palazzo Vescovile organizzata dalla Libreria Cremasca in collaborazione con la Diocesi di Crema. Questa volta l’ospite sarà Caterina Zaira Laskaris, docente di Storia delle tecniche artistiche presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e l’Università degli Studi di Pavia. La studiosa ha condotto le sue ricerche principalmente nel campo delle tecniche artistiche, del restauro e della storia della miniatura. Si è dedicata anche alla produzione letteraria con tre raccolte di poesie, un romanzo e due libri illustrati per bambini. Il libro che verrà presentato (C.Z. Laskaris, Grammatiche della percezione, Mimesis Edizioni, Milano – Udine 2017) però non riguarda nessuna di queste tematiche, ma si tratta di ragionamenti riguardanti l’estetica, l’epistemologia della storia dell’arte, l’etica… non a livello astratto, ma partendo dall’esperienza quotidiana del vedere, del percepire gli oggetti che ci circondano. Dall’avvento della fotografia in poi, in un crescendo esponenziale dovuto alla diffusione digitale, si è sommersi da un’infinita quantità di immagini che stordiscono al punto da non essere più in grado non solo di guardare, ma nemmeno semplicemente di ‘vedere’. Si assiste a un declino delle personali capacità ricettive e di conseguenza espressive di fronte alle opere d’arte. Ecco allora che l’autrice, attraverso una serie di riflessioni vuole incoraggiare le perosne a riscoprire il piacere di vedere.
Laskaris ha risposto anche ad alcune domande.

Qual è stato il suo percorso di studi e come è arrivata a occuparsi di storia dell’arte?
Mi sono laureata in Lettere all’Università di Pavia con una tesi in storia dell’arte dedicata a un messale miniato. Ho proseguito gli studi in questa direzione, dapprima alla Scuola di Specializzazione in Storia dell’arte dell’Università Cattolica di Milano, poi con il Dottorato in Storia e conservazione dei beni culturali presso l’Università di Macerata. Non so dire come sia scattato in me l’interesse per l’arte e la sua storia; forse fin da bambina, sfogliando libri illustrati e guardando immagini di opere d’arte. Forse per il piacere del disegno e della pittura. O per lo spirito di immaginazione. Istintivamente ho cercato di coniugare tutti questi interessi attraverso un percorso di studi, di conoscenza. La storia dell’arte è appassionante. Spinge a pensare molto.

Grammatiche della percezione. Di cosa tratta questo libro?
Parte dal nostro rapporto con le opere d’arte per arrivare agli oggetti di tutti i giorni. Come vediamo le opere artistiche? Come immagini o come oggetti? Ci rendiamo conto di guardare un’opera d’arte quando le siamo davanti o il nostro sguardo vi scivola sopra, distratto e indifferente? Osservare un dipinto o una scultura dal vivo è come guardarla in fotografia, e viceversa? Il libro parla di queste cose e anche della bellezza del vedere, del percepire. Come guardiamo e, più in generale, come percepiamo le cose che ci circondano? Con attenzione o superficialità? Credo che il mondo dell’arte, la consuetudine con le opere artistiche possano essere una buona palestra per riabituarci al piacere della percezione.

Lei insegna Storia delle tecniche artistiche all’università e si è occupata principalmente di ricerche in questo campo oltre che nell’ambito del restauro e della storia della miniatura. Come mai ha deciso di imboccare questa “strada speculativa” come lei stessa la definisce?
È stata un’esigenza. Ho accumulato negli anni, attraverso l’esperienza di ricerca e quella didattica, una sorta di “insoddisfazione”: mi sembrava che tanti libri e approcci specialistici alla storia dell’arte non si occupassero di oggetti, ma solo di immagini. Si tende troppo spesso a considerare le opere d’arte come strane entità senza corpo (la nostra civiltà fotografica e digitale ci abitua a questo), dimenticandosi che sono manufatti, “cose” fatte con materiali, procedimenti tecnici, gesti. Quanti cartellini di musei e didascalie di cataloghi d’arte non forniscono dati sulla tecnica esecutiva delle opere, quasi fosse un aspetto secondario, poco importante. Volevo parlare di tutte queste cose, che hanno una dimensione più generale rispetto alla ricerca storico-artistica e un valore anche metodologico, utile per gli studenti per esempio, così le ho riunite in un libro.

Nel volume lei sostiene che dobbiamo reimparare a vedere, cosa intende?
Dobbiamo renderci conto di stare guardando le cose mentre le percepiamo. Il nostro sguardo deve essere consapevole nel momento in cui agisce. In questo modo scopriremo tante sorprese, tanta bellezza anche nei dettagli più banali della quotidianità. Si può cominciare a esercitarsi guardando proprio quelle cose che sono state create dai loro autori per essere guardate (contemplate, rimirate, osservate): le opere d’arte, appunto. Sembra un paradosso, ma dobbiamo imparare a guardarle soprattutto noi che in quanto “addetti ai lavori” abbiamo maggiormente a che fare con loro.

Qual è, secondo i suoi ragionamenti, il rapporto tra il vedere, la produzione artistica e la percezione che ha chi guarda un’opera d’arte?
Rispondo con un esempio: ho chiesto a un folto gruppo di studenti dei miei corsi di provare a descrivere un’opera d’arte a loro scelta. Quasi tutti si sono basati su fotografie, senza cioè guardare l’opera direttamente, e quasi nessuno si è soffermato sugli aspetti più fisici e materici: è a suo modo un segnale della difficoltà di stabilire un contatto innanzi tutto visivo, percettivo con l’oggetto artistico. Se non riusciamo a considerare e a descrivere in quanto oggetto ciò che vediamo allora vuol dire che non lo stiamo veramente guardando (non ci incuriosiamo, non ci avviciniamo, non lo osserviamo). La nostra esperienza di quell’oggetto (artistico in questo caso) è limitata, diventa piuttosto un’astrazione, spesso banale.

Lei non si occupa solo di ricerca, ma ha pubblicato anche tre raccolte di poesie, un romanzo e due libri illustrati per bambini. Quanto è importante per lei la dimensione creativa rispetto a quella dello studio di opere d’arte altrui?
Credo che i due aspetti siano inscindibili. La dimensione creativa è appunto ciò che cerco di valorizzare nel libro: è un’esperienza radicale e universale nell’uomo. Ciascuno di noi crea in tanti modi: facendo arte, facendosi ispirare dall’arte e dal mondo, e anche percependo il mondo e l’arte. Percepire e descrivere ciò che percepisco è già creare. Gli artisti lo fanno in modo sublime e totalizzante, ma questa esperienza è per tutti. Loro ci indicano la strada.