IL RACCONTO DI ANNA – …la musica nel cuore

racconto di Anna

Il reparto di persone geriatriche psichiatriche è collocato a piano terra, nella sala con la televisione si trova una porta aperta su di un piccolo portico, con un lembo di giardino.È molto luminoso; anche gli anziani per la maggior parte sono “presenti”, abbastanza autosufficienti.

Nel reparto le attività di animazione per oggi consistono nel colorare alcune fotocopie di disegni tratti da album riempitivi per bambini; gli anziani accolgono con gioia la dolce Luisa, l’animatrice, l’aiutano a sistemarsi i tavoli, partecipano quasi tutti, anche coloro che non fanno nulla, solo con la presenza o qualche sguardo furtivo.

Ciro ha una piccola radio con sè, una piccola radio con una incredibile potenza; Irma è vestita in modo elegante, è stata dalla parrucchiera che è  un servizio interno all’istituto; è un gioiello di donna con mani sottili e grazia innata: mi spiega di esser internata in quanto orfana e senza casa; ha un occhio solo, al posto dell’altro piccole rughe composte, anche in questo riesce ad essere graziosa.

I primi contatti mi affaticano molto; sono quasi esclusivamente verbali: questi anziani sono molto diffidenti e cercano giustamente di non esporsi molto.
Al reparto ormai mi riconoscono, e oggi che non sapevo in assoluto cosa sarei andata a fare rimango quasi due ore.

Prendo contatto con gli anziani ad uno ad uno, e se qualcuno si avvicina invadendo lo spazio che ho creato come “nostro” in modo gentile ma determinato lo rimando a tra poco.

Riesco a ricordare i loro nomi (non sapevo di ricordarli); ricordo loro gli incontri precedenti, la situazione e persino il posto fisico dove ci siamo incontrati; questo li colpisce molto e anche loro mi confermano la loro memoria dell’incontro anche se, giustamente, non sanno cosa farò.

Spiego loro che porterò con me la musica, alla parola danza si sottraggono subito; si sentono vecchi, oddio lo sono, incapaci di muoversi, pesanti: in un primo incontro Liliana mi dice di non avere più la musica nel cuore: è un’immagine precisa con la quale mi misurerò.

Chiedo a ciascuno se posso sedermi, se disturbo, mi presento chiedo o dico il loro nome, chiedo l’età, il luogo di provenienza, il lavoro che svolgevano da giovani, evito domande dirette sulla famiglia, sugli affetti; mi soffermo sugli eventi e sui luoghi.

Alcune azioni me le detta direttamente il buonsenso, mi affido al mio istinto e lo tengo d’occhio con lo sguardo del terapeuta.
Dopo aver parlato quasi con tutti, avvicino Piera con le sue bambole in braccio da cui non si separa MAI.
Piera non accetta la mia presenza, mi sopporta; risponde alle mie domande utilizzando chiaramente le mie parole all’interno del suo delirio fonetico.

Il suo gesto si fa più intenso, la punta del piede piega leggermente stacca di poco da terra e prima che si senta minacciata o invasa la saluto e al mio saluto risponde chiaramente: “Grazie”.

Francesco che ha tentato tutto il tempo di isolarsi dagli altri con me per mostrarmi il suo prezioso album di fotografie, e già, in un incontro precedente m’aveva detto che non avrebbe portato il suo album in sala televisione  “… sennò gli altri lo vedono …”, di fronte al mio rifiuto di isolarmi dagli altri,  si concede  e questa mia visita si conclude con Valentina, Milena ed Enrica sedute al tavolino con Francesco che commenta le sue foto e io che divertita lancio un invito a farne altre tra noi; invito che so essere ascoltato e a cui in nessun caso verrò meno.

Gli incontri di osservazione si succedono e io ogni volta inserisco un nuovo piccolo elemento: ogni volta rispondo alle curiose domande del personale paramedico e ascolto: ascolto gli spostamenti nello spazio, i luoghi, i modi, i giochi, ogni singolo elemento che possa aiutarmi a entrare in sintonia con loro per non diventare un ulteriore elemento istituzionale all’interno della vita di reparto.

Comincio a portare la musica, chiedo il loro parere; faccio loro disegnare la musica con le mani insieme a me con gli occhi chiusi.
Questa signora se ne sta seduta, inerte; sembra dormire ad occhi aperti; provo anche con lei ma sono molto scettica; l’anziana seduta vicino scuote la testa, ride del mio tentativo, secondo lei “è  inutile: non capisce niente…”.

Invece Iris ci stupisce, muove le mani a tempo e le fa danzare nell’aria.
C’è sempre un modo anche quando non lo vediamo.
Piera oggi è contenta, commenta la musica che metto, inserisce le mie parole nel suo continuo  delirio fonetico.

Allora sento che posso osare. Con una scusa mi allontano non più di dieci minuti e quando torno Piera è arrabbiata con me, non vuole che io metta più la musica. Ha vissuto il mio allontanamento come un abbandono e me lo manifesta: questa non è una reazione casuale.

Mi segue piano all’interno della sala e non potendo raggiungermi, sposta il mio cappotto e la mia borsa e li raduna vicino a lei.
Quando vado a riprenderli, di fronte alla mia  vigile tranquillità, mi perdona e alla mia richiesta di un bacio di saluto non si sottrae.

Mi rapporto a loro come nell’esercizio dell’elastico di Maria Fux. Li guardo, mi mostro, mostro loro il mio piacere nel muovermi, la bellezza d’esser viva e lì in mezzo a loro. Poi li tocco, entro in contatto di pelle con loro.Piano con una mano, spesso con un gioco:” Sono calde le mie mani?”

Poi….piano piano…arriva il giorno in cui: in accordo con l’assemblea di reparto, in accordo con la “referente” la caposala, in accordo con l’universo tutto… mi danno la possibilità di usare una parte della sala pranzo.

Via finalmente lontani da sguardi giudici inopportuni. Parto con l’ascolto della musica: il ritmo con le mani, con le braccia; cerco di vedere, di capire i loro reali limiti e con quali abitudini di  decenni di inattività abbiano incarcerato il corpo.

Parole come destra e sinistra sono vuote di significato per loro.

Faticano a tenere gli occhi chiusi, a muovere le braccia, a fare movimenti diversi con la destra e la sinistra.
Hanno una grande paura di fare cose “strane”, “diverse”. Le loro stranezze le hanno pagate care, in anni di vita rinchiusa.

Mi muovo per prima mentre spiego: faccio loro da esempio, da me possono trarre spunti per cercare il loro movimento.
Alcuni di loro sono quasi totalmente sordi ed allora mostro con il corpo, sorridendo ciò che andremo a fare.

Dopo diversi incontri di contatto, di ricerca di una musica che li stimoli, trovo una forma di incontro che sia rituale, tranquillizzante e al tempo stesso mantenga l’impronta primaria del gioco.

Il rituale dell’incontro: all’inizio è il saluto, poi vado a radunare il gruppo per iniziare il lavoro, se l’anziano ha bisogno di più tempo per decidere di venire gli comunico che la sua  poltroncina il suo posto c’è  e lo aspetta.

Il gruppo consolidato è di circa sei/otto anziani alcuni dei quali si precipitano in sala pranzo quando mi vedono arrivare. Il mio saluto all’interno del reparto è per tutti; l’invito a partecipare è rivolto a tutti.

L’evento della danzaterapia deve essere come una festa settimanale. La musica deve avere un ritmo chiaro, una melodia ben divisa dal ritmo: decenni di inattività, i farmaci, la malattia li costringe spesso a fermarsi.

Alcuni hanno tremori evidenti che svaniscono nel danzare la musica con le mani; alcuni hanno rigidità che si perdono nel battere i piedi.

Quando abbiamo conosciuto la musica faccio distribuire dalla “mia assistente” Milena, gli piccoli strumenti musicali e divido il gruppo in due parti. Ora terremo il tempo con gli strumenti, quando entra il ritmo.

A qualcuno “sfugge” un movimento, ma io dirigo, seria e convinta questa orchestra di “persone sbagliate” con i volti pieni di incredula felicità. Di seguito danziamo con gli strumenti in piedi.

Devo mantenere molta attenzione ai tempi: si stancano molto velocemente di stare in piedi, la loro stabilità non è delle migliori; anche su questo nel tempo andrò a lavorare.

Milena ha grandi difficoltà, ma viene ogni volta; non riesce a  scegliere un colore di carta crespa, non vuole tenere in mano nulla, ha paura del contatto e del giudizio. Ai primi incontri rimaneva fino alla prima consegna, poi fuggiva con un pianto da frustrazione.

Negli ultimi due incontri ho provato a darle il ruolo di assistente “liberandola” dall’incombenza di partecipare; questo fa in modo che si trattenga e segua tutto l’incontro, con lo sguardo , con le risa, con la presenza. Comunque io le lascio o la carta crespa o l’elastico o il palloncino vicino alla sua poltroncina e non commento mai nè indago sul suo rifiuto.

“Ciascuno con i suoi tempi”.

Alla fine ciascuno srotola la carta crespa: “come la musica” dico.

In piedi con un lembo di carta crespa tra le  loro mani e tutti gli altri lembi tenuti da me, facciamo un grande arcobaleno nel cielo , alzando le braccia e nel lago abbassandoci e ondulando la carta come i colori dell’arcobaleno sull’acqua.

testo di Anna Borghi