È ritornato in Guatemala giovedì scorso mons. Rosolino Bianchetti, vescovo della diocesi del Quiché (e originario della nostra), dopo avere concelebrato – mercoledì sera – alla solenne Eucarestia presieduta dal card. Cantoni a Santa Maria.
Gli abbiamo chiesto il motivo del viaggio in Italia, certi che non si trattava solo di un momento di vacanza. “Sono venuto a Crema – ci spiega – martedì dopo Pasqua, in visita ai miei familiari e amici, accompagnato da padre Adonias Gamaliel Roblero che ho ordinato sacerdote, insieme ad altri tre confratelli, lo scorso anno.
Ho poi partecipato al vostro pellegrinaggio diocesano a Roma, con l’udienza del Santo Padre. Ma la ragione principale era quella di incontrarmi con il prefetto del Dicastero delle cause dei santi. Non solo per una visita di cortesia, ma anche per chiedere a che punto è il procedimento che ci porterà ad ottenere il nihil obstat del Dicastero per l’inizio del processo di beatificazione a favore di un gruppo numeroso di 130 servi di Dio della nostra diocesi del Quiché che si aggiungeranno ai 10 beati già riconosciuti dalla Chiesa.”
È una notizia certamente straordinaria. Ti hanno dato buone speranze?
“L’incontro mi ha dato la convinzione che è ormai vicino il momento in cui ci sarà concesso il nulla osta per procedere, a livello diocesano, all’analisi dei documenti e delle testimonianze sui futuri martiri.
Come ricorderai, già dieci nostri martiri sono stati beatificati nell’aprile del 2021 con la partecipazione di circa 7.000 fedeli. Proclamati nella diocesi del Quiché, a Santa Cruz, dal nunzio apostolico mons. Francesco Padilla, di origine filippina. Subirono il martirio nel contesto della guerra civile che devastò il Guatemala tra il 1980 e il 1991.”
E questi nuovi martiri?
“I nuovi, di cui stiamo preparando tutto il dossier, sono 130. Sono uomini, donne, bambini e un sacerdote di origine nordamericana. Sono stati torturati e trucidati quasi tutti da membri dell’esercito del Guatemala negli anni Ottanta del secolo scorso. Erano membra delle comunità cristiane, formati nell’Azione Cattolica che li aveva preparati alla dimensione comunitaria. Si erano impegnati a seguire Gesù con il Vangelo in mano, servendo i loro fratelli ammalati, preparando i bambini e i giovani ai sacramenti e con un forte impegno anche sociale, vista l’assenza dello Stato nella regione. Furono quindi promotori e costruttori di scuole, di apertura di strade e di ambulatori.”
Erano quindi mal visti dai militari al potere?
“Certamente. Ma loro si erano impegnati e non si tirarono più indietro, nonostante le minacce continue, le torture che molti in più occasioni hanno subito, fino al martirio. Ma le testimonianze su di loro, se da un lato sono raccapriccianti, dall’altro sono anche stimolanti e fanno di loro, bambini, donne, uomini, persone esemplari. Le comunità li ricordano a tutt’oggi e li celebrano nell’anniversario del loro martirio coinvolgendo bambini e giovani, per mantenere viva la memoria perché sia di stimolo per un impegno attuale nelle loro comunità.”
Un bene per la vostra Chiesa?
“Noi siamo testimoni di quanto bene provoca questa testimonianza, questa memoria. Le nostre comunità sono cresciute moltissimo e le donne e i giovani sono sempre più impegnati. Vorrei sottolineare, in particolare, l’impegno delle donne, sposate e non, in prima fila oggigiorno nel settore della formazione, delle celebrazioni, degli organismi pastorali e anche nella società civile.
Una forte ricaduta positiva di questa testimonianza la notiamo anche nell’aumento delle vocazioni al sacerdozio, attualmente in seminario abbiamo 27 giovani, lo scorso anno sono stati ordinati 4 nuovi presbiteri e in questi mesi di maggio e giugno ne ordinerò altri due, il prossimo anno cinque! Penso che questo sia frutto del sangue dei martiri, della loro intercessione, della loro testimonianza.”
Quando ha imperversato questa dittatura militare?
“Dagli anni sessanta il Guatemala è stato governato dalla dittature militari fino agli anni Novanta. Le popolazioni hanno sofferto una repressione spaventosa, delle più dure.”
Tu eri là?
“Io ero nel nord del Quiché, a Chiacul e Uspantan, paese originario del nobel della Pace Rigoberta Menchù. Sotto la dittatura erano tempi duri, con un controllo ferreo dei militari che soggiogava tutta la diocesi. Vari di questi 130 martiri sono stati miei contemporanei durante il mio servizio pastorale in quelle comunità.
Ne ho conosciuto personalmente parecchi e posso dire che erano persone semplici, umili, ma che portavano nel cuore un grande fuoco di amore che li faceva intrepidi di fronte a qualsiasi difficoltà e minaccia. La maggior parte erano uomini e donne e spostati con famiglia e figli.”
Ne ricordi uno in particolare?
“Ricordo in modo speciale Julio Quevedo, perito agronomo, impegnato con me – in piena guerra – a servire in primo luogo le vedove, gli orfani e la gente che si era rifugiata nella foresta. Dopo numerose minacce per questo suo servizio ai più poveri, una sera, di ritorno da una visita ai suoi genitori, ormai vicino a casa, di fronte alla moglie e ai tre figli, è stato assassinato con vari colpi d’arma da fuoco. La sua testimonianza è ricca di umanità, oltre che di fede. Minacciato più volte, non si tirò mai indietro, cosciente del pericolo nel quale incorreva.”
E ora com’è la situazione?
“Attualmente la situazione politica e sociale non è così pericolosa come a quei tempi. Però, come in altri Paesi del centro America, ci sono molte espressioni di uno Stato catturato dai narcotrafficanti e dai gruppi criminali. I politici sono coinvolti, maneggiano traffici economici notevoli.
Alla gente non è rimasta l’alternativa che migrare soprattutto verso gli Stati Uniti, attraverso il Messico. E ciò ha una ricaduta positiva a livello economico: le famiglie possono usufruire di un appoggio finanziario di coloro che sono partiti e costruiscono case (c’è un forte fervore) e negozi. I figli possono studiare e curare la propria salute: gli ospedali pubblici fanno acqua e si rivolgono a quelli privati, a pagamento.
Coloro che emigrano mantengono forti legami con la famiglia e con la loro comunità di origine. Questo a livello economico e anche a livello di fede vissuta: sono andati lontano ma mantengono i loro valori sociali, familiari e di fede. Gli Stati Uniti hanno bisogno di loro per la manodopera e se politicamente dicono che sono una presenza negativa, in realtà è vero il contrario.”
Qual è ora il cammino per la beatificazione dei 130 martiri?
“Abbiamo già una documentazione preparata che sarà sottoposta al tribunale diocesano che si insedierà dopo il nihil obstat ufficiale che stiamo aspettando.
Questo tribunale analizzerà le testimonianze dirette di coloro che li hanno conosciuti o hanno lavorato insieme, nonché i documenti. Poi tutto verrà presentato a Roma. Qui analizzeranno il tutto, si farà la cosiddetta Positio e prevediamo che, in cinque o sei anni, possa essere proclamata la beatificazione di questo grande gruppo.”
E la canonizzazione dei 10 beati?
“Bisogna aspettare il miracolo, anche da parte di uno solo. Ancora non l’abbiamo, ma lo stiamo attendendo con fiducia.”