L’ABC DEL PIFFERAIO, il racconto di Licia Tumminello [seconda parte]

racconto

Ieri, nella sezione “Vi racconto” del nostro sito, abbiamo pubblicato la prima parte del racconto di Licia Tumminello. Oggi vi proponiamo la seconda e ultima parte.
Buona lettura!

«Ho fatto vedere a padre Karl il contenuto di una scatola che nascondevo sotto la tonaca: 108 dadi, su ciascuno un carattere dell’alfabeto, maiuscole e minuscole, punteggiatura compresa… Gli ho spiegato che i dadi servono a comporre le parole; le parole le frasi; le frasi le pagine e le pagine, un intero libro! Guardi, padre Karl, gli ho detto, basterebbe intingere il tutto nell’inchiostro e il gioco è fatto! Gli ho dato anche una dimostrazione: ho preso una cornicetta di legno – fatta apposta per gli esempi – e l’ho riempita di dadi scelti accuratamente. Giusto due righe, poche parole… Ho spennellato con un velo omogeneo d’inchiostro e… voilà! ho capovolto la cornice su un foglio di pergamena pulita pulita.»

«Ah…interessante!»
«Sì, anche Padre Karl è rimasto di sasso. Era una semplice frase: “Eccellentissimo Reverendissimo Padre Karl, la riverisco”. Non volevo prenderlo in giro… Era solo un esempio! Mi ha dato pure del ladro…»
«Ladro? Perché?»
«Per l’inchiostro… È vero, l’ho preso una sera, dallo scriptorium, mentre i frati erano tutti a dormire, ma serviva per la dimostrazione!»
«E poi, che è successo?»
«Lui ha voluto provare. Ha preso i dadi, se li è rigirati tra le mani, poi ha iniziato a comporre delle parole. Volevo intervenire, aiutarlo, ma mi ha fulminato con lo sguardo. Ci penso da solo! ha detto. Io mi accorgevo che stava sbagliando tutto… Infatti, quando ha capovolto la cornice sulla pergamena, erano… parole senza senso.»
«Davvero? E come mai?»
«Semplice. Doveva scriverle al contrario!»

La suora si è messa a ridere. «E adesso la scatola dov’è?»
«È rimasta nella mia camera, nascosta sotto il materasso…Tutto il mio lavoro, perduto!» le ho risposto sconsolato. «Non ci torno più, al monastero.» Poi, certo di essere stato creduto e grato per la sua comprensione, ho continuato: «Mi sono rimasti solo tre dadi, quelli che sto ancora intagliando.»
«Fammeli vedere.»

Li ho tirati fuori dalla tasca della tonaca. F R I: le prime tre lettere del mio nome. «Non sono ancora finiti…»
Li ha osservati, pensierosa.
«Glieli regalo» ho aggiunto, porgendoglieli, «per avermi raccolto e sfamato. Sono tutto quello che ho…»
Mi ha ringraziato con un sorriso, li ha riposti in grembo e ha chiuso gli occhi.
È calato il silenzio.

Non sapevo dove mi trovassi, dove stessi andando. Non sapevo cosa fare, che sarebbe stato di me, adesso che non avevo più un tetto, un riparo.
Improvvisamente mi è sorto l’atroce dubbio di avere commesso una leggerezza incredibile. Irreparabile. Ero andato via dall’unico posto a me noto al mondo, ed ero solo, come dieci anni fa. Con la differenza che non ero più un bambino che ispira tenerezza, ma un fuggiasco, un ladro. Un colpevole.
Oltre la tendina, il panorama era sempre uguale: un immenso manto verde scuro, spolverato d’argento, che dalla strada si stendeva sino in cima alle colline e pareva come poggiato contro un cielo color latte. Il silenzio, rotto solo dallo sferragliare della carrozza, aumentava il senso di solitudine che m’irrigidiva il corpo e stringeva il cuore.
Ah… poter suonare il piffero! Ma non volevo disturbare il sonno della suora.

Dopo un tempo indefinito questa, riaprendo gli occhi, mi ha chiesto dove fossi diretto.
«Non so» le ho risposto scuotendo il capo.
«Non mi hai neanche chiesto chi sono. Non t’interessa?»
«Ha ragione…»
«Sono suor Terese, la badessa del monastero femminile di Dalheim» e intanto si sfilava i guanti. «Sto andando a Magonza, per ritirare una consegna per la chiesa».

Ho notato subito le dita macchiate. Quel rosso scolorito, e ancora di più le tracce di blu oltremare… In una donna! Non era possibile, ma le conoscevo bene: non potevo sbagliarmi. Dovevo chiederle spiegazioni.

«Le sue mani… sono come quelle dei monaci…»
È rimasta silenziosa a guardarsi le dita, poi ha rimesso i guanti e annuito. «Sì Friedrich, anche noi lavoriamo agli antichi scritti. Li custodiamo, alcune di noi sono autorizzate a leggerli e molte sono coloro che passano le giornate a copiarli.»

Ero sbalordito. Non sapevo che anche le suore si occupassero dei manoscritti. I monaci lo considerano un privilegio, si vantano del loro ruolo… Non riuscivo a immaginare una donna, fosse anche una suora, nello scriptorium.
«Io sono una miniaturista. O meglio, lo ero, prima di diventare badessa».
Mi ha restituito i tre dadi. Ho preso il coltellino ed ho iniziato a rifinirne i contorni.
«Sai, è interessante questo tuo… lavoretto. Verresti con me a Magonza? Mi è venuta un’idea…»

I suoi occhi erano buoni e aspettavano un sì. Per me, Magonza o un qualsiasi altro posto, è lo stesso, ho pensato, ma quella meta, mentre la carrozza andava, mi ha riscaldato il cuore e sciolto le membra, come strutto sul fuoco.
Lungo la strada ci siamo fermati in una locanda per rifocillarci e far riposare i cavalli. Non ho mai mangiato tanto in vita mia.
«Datti una ripulita» mi ha detto poi suor Terese. «Devi essere presentabile. Più tardi andremo a trovare un mio giovane amico.»

Giunti a Magonza il cielo era grigio, la via polverosa e larga. Guardavo stupefatto dal finestrino. Una città non l’avevo mai vista. Non c’erano casupole ma palazzi; non c’erano carretti ma carrozze. Donne e uomini ben vestiti che andavano di fretta; bambini che vociavano, allegri, chi rincorrendosi, chi spingendo il cerchio con un bastone. Giovanette con ceste di pane sulla testa e ragazzi che trasportavano carretti di frutta e ortaggi. Movimento e vita, in ogni angolo, in ogni strada.

Ci siamo fermati dinanzi alla bottega di un orafo. Il proprietario incuteva soggezione e non sembrava poi così giovane. Forse era la barba, lunga e folta, che rendeva il suo aspetto severo, o forse era lo sguardo altero e diffidente col quale mi ha squadrato da capo a piedi quando sono entrato al seguito della badessa.

«Caro Johannes, questi è Friedrich. Viene dal monastero di Weltenburg ed ha avuto un’idea molto interessante, che potrà illustrarti lui stesso!»
L’espressione dell’uomo si è ammorbidita, senza però perdere quella punta di sospettosa prevenzione, forse tipica del suo rango.  Era un ricco commerciante, del resto, e la badessa aveva appena acquistato da lui un turibolo finemente intagliato, guarnito di madreperle incastonate a formare una croce.

«Dimmi, ragazzo.»
Mai avrei immaginato – solo pochi giorni prima – che il mio passatempo, disprezzato da padre Karl, potesse interessare qualcuno, fuori dal mio convento.
Gli ho mostrato i dadi, ancora piuttosto grezzi, e cercato di vincere la timidezza. Con parole povere e il cuore come un tamburo, incespicando spesso, gli ho descritto come andavano utilizzati.

«Io… penso che in questo modo si potranno scrivere molti più libri…» ho concluso, alzando gli occhi su quell’uomo per una fugace occhiata, ma tornando subito a guardarmi le punte dei piedi.
«La scrittura è la più alta delle attività manuali» ha esordito lisciandosi la barba. «Non mi stupisce che un amanuense l’abbia considerata una diavoleria. Forse ne ha intuito le possibilità e l’avrà ritenuta in grado di togliere il lavoro a lui e a chi, come lui, dedica la propria vita a copiare gli antichi testi. Che cosa pensa lei, Terese, in proposito?»

«Amo molto il mio lavoro. Io e le altre miniaturiste abbiamo fatto delle cose meravigliose e sono convinta che nessuna macchina possa fare altrettanto.  La bravura di certi artigiani sarà sempre richiesta; non credo che scomparirà. Ma il progresso non si può e non si deve fermare».
«È vero» ha detto l’orafo. Poi, rivolto a me: «Però il legno non è materiale adatto per fare timbri. Assorbe e si rovina subito. Ci vuole il metallo. Un metallo resistente. O meglio, una lega… E occorre trovare un inchiostro che aderisca su questo materiale. E studiare una pressa, che sostituisca la mano dell’uomo…»

Facendo roteare tra le dita uno dei miei dadi, ha continuato: «Ci vuole tecnica, ragazzo. Tecnica. E molti soldi.»
«Ma l’idea è buona, vero Johannes?»
«Molto buona, mia cara Terese, molto buona. Direi geniale. Bravo Friedrich.»
Ho alzato lo sguardo su di lui, riconoscente. Nessuno mi aveva mai detto “bravo”.  Sto sognando, ho pensato.
«Allora… t’interessa?» ha aggiunto la badessa. «Io sono venuta subito qui perché solo una persona come te, artista e conoscitore del mondo…»
«Sì. Vale la pena di lavorarci su» ha detto l’uomo annuendo, pensieroso. «Direi proprio di sì…»

Suor Terese mi ha sorriso; ciò mi ha dato coraggio e, fatto un respiro profondo, ho osato, non avendo nulla da perdere.
«Mi tenga a lavorare con lei. Sono capace, volenteroso e… non le chiederò nulla. Solo lavorare, signor…»
«Gutenberg. Johannes Gutenberg, ragazzo mio.»

Quello che è successo dopo, è storia.
Com’è vero che dietro le grandi conquiste ci sta sempre il cuore aperto e la curiosa, appassionata visione di un istinto fanciullo…