La Luna nel caffè – Seconda parte

caffè

Ecco la seconda e ultima parte del racconto firmato da Licia Tumminello. Buona lettura!
Per chi si fosse perso la prima parte, può leggerla nella sezione “Vi racconto” del nostro sito.

La Luna nel caffè

Francesca, una ruga interrogativa tra le sopracciglia, aveva alzato lo sguardo su di lui.

«Non mi fraintenda, la prego. Devo fare una premessa. Mia madre amava il caffè. Ogni mattina glielo portavo a letto. Era paralizzata».
«Oh, mi spiace!».
«Se n’è andata, tanto tempo fa. Mi manca ancora. Prima di morire, mi ha detto che quando avessi trovato la luna nel caffè lei sarebbe tornata, e non mi avrebbe più lasciato. Da allora la sogno spesso, e ogni volta mi chiede a che punto sono… Adesso ho compreso di aver bisogno di aiuto: il tempo stringe, da solo non ce la faccio. Sarebbe disposta ad aiutarmi? Lei viene spesso qui… Cercherebbe anche lei, per me, la luna nel caffè?».

Francesca lo aveva ascoltato. Aveva dinanzi un malato di mente? Uno che ci provava, nonostante l’età, o uno che credeva nell’arte divinatoria della lettura dei fondi del caffè?
Il discorso era stato coerente e ben formulato; la premessa escludeva, almeno al momento, che ci stesse provando. Eliminate quindi la prima e la seconda ipotesi, restava la terza. Aggiungendo l’amore per la madre, che traspariva dalle parole e dal suo sguardo malinconico, poteva essere plausibile. Avrebbe consultato Google, per cercare il significato della luna nella caffeomanzia.

«Allora, accetta?».
«Mi lasci pensare, dottor Fardella».
«Achille, mi chiami Achille. Non sono neanche laureato. A lei posso dirlo!».
«Signor Achille, non ho capito bene… cosa c’entra la luna col caffè?».
«La luna! Sì, deve essere nel caffè! Me l’ha detto mia madre. Me lo ripete ogni volta che la sogno. La luna deve essere nel caffè e allora ci ritroveremo».

È tutto matto, aveva pensato Francesca.
«Va bene, allora. Se lo dice sua madre, cercherò anch’io la luna nel caffè e quando la trovo, glielo dirò».
«No, non basta che me lo dica! Dovrò vederla anch’io! L’aiuto che le chiedo è proprio questo… Sa, sono sempre più stanco, dovrei venire più spesso, ma faccio fatica». Aveva abbassato gli occhi e aggiunto: « Non credo mi resti molto tempo».

Francesca si era intenerita.
«Non dica così, signor Achille! Okay, l’aiuterò, ci conti. Ma intanto beviamoci questi e iniziamo la ricerca».
E così dicendo aveva bevuto d’un fiato il proprio caffè, ormai freddo.
«Guardi, guardi adesso!». Achille la incitava a controllare.

Francesca, con ostentata attenzione, aveva rigirato la tazzina tra le mani, scrutando il fondo, poi aveva scosso la testa.
«Mah…non mi pare di vedere la luna».
«Eh…è difficile. La cerco da anni, ma continuerò! Continueremo, vero Francesca?».
Si era alzato e aveva raccolto bastone e giornale.
«Sicuramente signor Achille! E se dovessi trovarla, festeggeremo!».
Aveva osservato il professore pagare e uscire, ringalluzzito, sorridente, ottimista. Non aveva neanche mangiato il fagottino. Povero vecchio, non ci stava più con la testa. Si era chiesta quanti anni potesse avere. Non meno di novanta, sicuro.
Uno sguardo all’orologio alla parete. La lezione stava per iniziare.
Francesca aveva scosso il capo e salutato il barista. Con i libri sotto il braccio si era incamminata verso l’Università.

Erano passati parecchi mesi nel corso dei quali tanti caffè erano stati consumati, tanti fondi erano stati esaminati.
I primi tempi Francesca non ci metteva impegno: pensava che il professore fosse un po’ strano, ma al contempo aveva pena di quell’uomo solo, con la voglia di vivere sorretta da un ricordo e il desiderio di condividere con qualcuno la propria attesa.  Lui la salutava con un inchino e le rivolgeva uno sguardo interrogativo; lei gli sorrideva e alzava le sopracciglia come a dire: ancora nulla, mi spiace. Achille scuoteva il capo costernato, e lei s’immalinconiva.

Col passare del tempo aveva preso l’abitudine di raggiungerlo al tavolo e scambiare qualche parola. Il professore si era animato: le aveva raccontato della mamma e dei viaggi con lei, del suo amore per le cose belle, delle ortensie del portiere, della paura di non riuscire a trovare la luna e deludere sua madre.

L’amica e i due colleghi, diventati anche loro assidui frequentatori del bar Colomba, la prendevano in giro: le chiedevano come andasse con il pazzo; la stuzzicavano definendolo “il suo corteggiatore” e la canzonavano quando, finito il caffè, esaminava il fondo della tazzina. La mezza confidenza fatta alla rossa era stata ingigantita con particolari inventati ma lei, timida, sopportava e non replicava.
Non avrebbero capito. Come lei inizialmente, del resto.

Col tempo si era affezionata a quell’uomo distinto, che pareva frequentasse il bar solo per incontrarla, che consumava il caffè non per il gusto e l’aroma, ma per il fondo, alla ricerca di una luna improbabile. Lui sempre più ingobbito; lo sguardo desolato col quale ogni volta la salutava, le stringeva il cuore.
La presenza del professore, al bar Colomba, era meno puntuale. Anche quella mattina Francesca lo aveva cercato con lo sguardo, invano.
Gli amici avevano scelto un tavolo defilato, appoggiato i libri su una sedia e aperto le agende: dovevano fissare gli incontri per ripassare insieme.

Mentre la rossa prendeva la parola, Francesca aveva ordinato il solito e controllato l’ora. Erano le dieci.
«Abbiamo un’ora di tempo. Sbrighiamoci».
Gli altri discutevano, lei ascoltava, sorseggiando il suo caffè, abbracciando la tazzina con le mani, com’era sua abitudine. Un’occhiata distratta al fondo. Poi, uno sguardo più attento. Francesca non credeva ai suoi occhi: la falce di luna era lì, nitida. Non si spostava neanche muovendo la tazzina. Era scattata in piedi.

«Nando, dove abita il professore?».
«Non saprei, signorina… veniva sempre da lì» e con un gesto le aveva indicato la strada di fronte.
«Accidenti… devo trovarlo!».
«Franci, dove vai? I tuoi libri!» avevano gridato i colleghi, sconcertati. Francesca era già in strada.
«Rifletti» aveva detto a se stessa. «Il professore comprava il giornale, poi tirava dritto… Il giornalaio! Devo trovare un’edicola, e da lì una portineria, con le ortensie».

Francesca correva, la tazzina in mano. Ogni tanto la controllava preoccupata, ma la luna era sempre lì.
Ecco il giornalaio e, svoltato l’angolo, due isolati più oltre, un palazzo signorile, una portineria con un piccolo giardino. Le ortensie erano in piena fioritura.
«Buongiorno, abita qui il professor Fardella?».
«Chi lo desidera?».
«Sono la… nipote».
«Salga pure, quarto piano, ultima porta a destra. Suoni, che le apre la badante».

L’ascensore era occupato. Francesca aveva imboccato le scale. Era giunta al piano, trafelata.
«Buongiorno. Sono la nipote del professore… Posso vederlo?».
«Ha avuto una crisi, mezz’ora fa. Adesso c’è l’infermiera, non si può entrare. Povero signor Achille, sono due settimane che non sta bene, e da tre giorni non tocca cibo».

All’ingresso, un imponente cassettone in ebano. Sul ripiano di marmo la foto sbiadita di una donna giovane, bella. Sembrava darle il benvenuto.
Francesca aveva accarezzato la cornice e posato la tazzina accanto a quel volto sorridente.
Si era aperta una porta. L’infermiera era uscita, mesta.
Francesca l’aveva schivata ed era corsa dentro.

«Professore, l’ho trovata, gliel’ho portata…».
Achille giaceva sereno, le labbra distese in un leggero sorriso.
Sul lenzuolo candido, una macchia di caffè.