LA LUNA NEL CAFFÈ – parte uno

caffè

Riceviamo e pubblichiamo l’interessante racconto della signora Licia Tumminello. Vi invitiamo a leggere la prima parte de La luna nel caffè.
A Milano, nei pressi dell’università, c’è il bar Colomba. Qui, ogni mercoledì mattina, fa colazione Achille Fardella, un affezionato cliente del titolare-barista Nando.
Al bar Colomba va spesso anche la giovane studentessa di Giurisprudenza, Francesca Accardo…

LA LUNA NEL CAFFÈ

Al bar Colomba il caffè era buonissimo e le leccornie, un’infinità.
Poco distante dall’università, era frequentato dalla gente più disparata: impiegati e studenti, pensionati e casalinghe. C’erano i saltuari e i frequenti, gli avventori di passaggio e gli affezionati.
Achille Fardella era tra questi.
Elegante, distinto. Cappotto di cachemire e guanti di pelle in inverno, completi di lino in estate. Camicia bianca e un papillon, sempre diverso. Tutta roba comprata a Milano, quando l’apparire era una priorità.

Ogni mattina, alle nove in punto, prendeva il bastone, usciva da casa, salutava il portiere e varcava la soglia del portone. Girava a destra verso il giornalaio, poi a sinistra verso il fornaio, quindi rientrava.
Il mercoledì, però, era il giorno del giro lungo. Dopo l’acquisto del quotidiano proseguiva diritto e si concedeva una colazione al bar Colomba.
Sedeva al solito tavolino e non aveva bisogno di ordinare. Nando, il titolare, sapeva già: caffè e fagottino alle mele.
Sfogliava il giornale con disinteresse, poi finiva col cioccolatino, omaggio per un cliente di riguardo. Pagava, ringraziava e tornava a casa. Il portiere lo salutava nuovamente, ossequioso.
«Qualcosa per me?».
Non che lo interessasse, ma era una frase che, se avesse voluto – e certi giorni capitava – poteva avviare una conversazione.

Talvolta riceveva della posta. Bollette, lettere della banca. Le riconosceva e non le apriva neanche: finivano nel primo cassetto del comò.  Ogni tanto qualche busta diversa catturava la sua curiosità: “Caro amico, un’offerta imperdibile!” oppure “I bambini sordomuti aspettano un gesto d’amore”. Leggeva dalla prima all’ultima riga, rigirava i fogli tra le mani, poi li conservava: secondo cassetto del comò, dove sordomuti ormai adulti e occasioni fuori mercato si accumulavano.
Così, da quando era andato in pensione.   

Non era infelice. Piuttosto, indifferente. Era il suo cruccio e spesso si toccava il petto, leggermente a sinistra, per sentire se ancora qualcosa pulsasse. Si tranquillizzava crogiolandosi nella convinzione che fosse il mondo insensibile nei suoi confronti e si consolava al pensiero che non sempre era stato così.
Prima, era diverso. Non prima della pensione. Prima, quando c’era sua madre. Le era stato accanto per un’intera vita. Servizievole e devoto, sino alla morte. Non ricordava più quando se ne era andata. Altre donne? Sì, ne aveva amate. Non così intensamente, però. Le aveva incontrate, possedute, allontanate. Conosciute poco. Conoscere una donna è difficile. Impegnativo.

Sposarsi… mai avuto l’intenzione. Era stato l’unico argomento di screzio con la mamma. L’idea di addormentarsi con qualcuno accanto – una donna, poi! – sentirne il respiro pesante, essere disturbato dal suo rigirarsi sotto le lenzuola e, al risveglio, quei capelli scomposti, la bocca impastata a biascicare un buongiorno… No. Amava la sua solitaria quiete.

Aveva spinto la porta a vetri del bar e un vociare chiassoso l’aveva investito. I tavoli erano occupati. Tutti, meno uno. Il suo.
«Buongiorno professore!».
Non sapeva perché il titolare lo chiamasse professore. Forse per il linguaggio forbito? Per il giornale sottobraccio? Non aveva ritenuto opportuno correggerlo e adesso sarebbe stato quantomeno tardivo. Ma non gli dispiaceva.
Si era diretto al solito posto, aveva posato il bastone, tolto il soprabito e aperto il giornale.
«Ecco, professore. Caffè lungo come piace a lei e fagottino ancora tiepido».
«Grazie Nando». Erano le prime parole che pronunciava, a parte il saluto doveroso al portiere.

Aveva versato mezza bustina di zucchero nella tazza, mescolato il caffè, letto i titoli di prima pagina, ascoltato le chiacchiere degli altri. Non per interesse. Per compagnia, forse.
Una ragazza dai capelli rossi parlava a voce troppo alta. Due accompagnatori pendevano dalle sue labbra; una terza ascoltava distratta, dando ogni tanto uno sguardo al barista. Poi, alzato un braccio:
«Nando appena puoi, per favore… quattro caffè!».
«Il mio macchiato!» aveva urlato la rossa. E aveva ripreso il discorso interrotto.
Achille la conosceva. Era una saltuaria.
«Chissà se fosse adatta… se fosse disposta…» aveva pensato osservandola.

Le piaceva quella sicurezza: aveva sempre qualcosa da dire, qualche argomento di cui parlare. Qualità che lui non possedeva. Ma non sopportava la spavalderia, l’aggressività con la quale la rossa si accaparrava la scena.
«No, non va bene. Troppo vivace, eccessiva. Inaffidabile… Ci vuole altro…».

Aveva spostato l’attenzione sull’amica.
Castana, niente trucco. Aria persa appresso a chissà quali pensieri.
L’aveva vista spesso, generalmente sola. Caffè e libri, non si faceva notare. Beveva, studiava, prendeva appunti. Era mancina e, quando scriveva, con la mano destra si torturava una ciocca di capelli. Quel giorno sembrava insofferente, quasi avesse voglia di andarsene.

«Forse potrebbe essere la persona giusta… Capace di mantenere un segreto». Doveva appurare qualcosa di più su di lei.
«Il conto per favore».
«Subito, professore».
«Nando, ma quella signorina con i capelli rossi non la smette di parlare…».
«Non me lo dica! Ho già la testa nel pallone».
«L’altra mi sembra più tranquilla».
«Ah sì. Una ragazza d’oro. Viene quasi tutti i giorni a fare colazione, spesso anche a mangiare. Frequenta l’università… giurisprudenza. Gli altri sono colleghi, ma si vede che con lei hanno poco da spartire!».
«Grazie Nando, ci vediamo».
«Noi siamo qui professore, l’aspettiamo!».

Mentre raccoglieva bastone cappotto e giornale aveva riflettuto sulle sue mosse. Incamminandosi verso l’uscita, aveva agito.
«Oh mi scusi, non volevo…».
«Ma… di cosa…» la ragazza aveva preso un tovagliolo e strofinato la manica del maglione, poi aveva sollevato il capo e accennato un sorriso.
«Non è successo nulla. Solo una macchiolina… Neanche si vede…».
«Sono desolato, signorina. Il suo caffè! Gliene ordino subito un altro e la prossima volta che ci incontriamo sarà mia ospite, va bene?».
«Oh! Ma… Okay, va bene, grazie» e aveva abbassato gli occhi, imbarazzata.

Achille era soddisfatto: aveva approcciato la fanciulla e concordato un mezzo appuntamento. Il resto sarebbe stato più facile.
Da quando le aveva parlato, pensava solo a come affrontare l’argomento. Era stato colto da una frenesia – di agire, di muoversi, di incontrarla -, per lui nuova. Ne era eccitato, ma anche disturbato. Non si sentiva in grado, gli mancavano le energie necessarie. Avrebbe dovuto pensarci prima! Troppi anni erano ormai trascorsi nell’inutile, solitaria ricerca: giornate tutte uguali in cui beveva il suo caffè, osservava il fondo della tazza, pagava e rimandava alla volta seguente. Sicuro di farcela da solo. Adesso doveva risolvere. Il tempo stringeva. Era stanco, abbattuto. Uscire diventava sempre più pesante. Gli mancava il fiato, le ginocchia cedevano.

Non poteva perdere altro tempo.
«Dottor Fardella! Oggi è più presto del solito!».
«Oh… Mi si è fermato l’orologio… Che ore sono?».
Non era vero. Da mezz’ora era pronto per il giro lungo. Aveva macinato chilometri in corridoio, poi, già stanco, aveva impugnato bastone e soprabito ed era uscito.
«Mancano dieci minuti alle nove».
Aveva sfilato l’orologio, uno di quelli meccanici, vecchio quanto lui, e finto di regolare le lancette. Gli tremavano le mani, era agitato. Doveva calmarsi.
«Andrò più piano… Del resto le gambe sono sempre più indolenzite…».
Cosa gli era saltato in mente, fare questa confidenza al portiere!
L’aveva salutato ed era uscito.

«Buongiorno signorina. Sono in debito con lei…ricorda?».
«Oh… Salve!».
«Posso?». Senza attendere conferma, si era seduto di fronte.
«Professore buongiorno! Prende… il solito?».
Nando era basito. In tanti anni quel cliente speciale aveva sempre tolto il soprabito e non aveva mai cambiato posto né scambiato parola con alcuno.
«Certamente! E un caffè per la signorina». Poi, rivolto alla sconosciuta: «Non mi sono neanche presentato… Achille Fardella».
«Francesca Accardo, molto lieta».

Nando aveva portato la consumazione.
Achille, mescolando il proprio caffè, cercava le parole giuste.
«Guardi che così rischia di graffiare la tazzina!».
Tornato alla realtà, aveva notato il sorriso divertito della ragazza, gli occhi verdi e una piccola macchia bruna, sul collo.
«Signorina, si è sporcata…».
«Dove? Ah no… è una voglia. Di caffè, secondo mia madre. Per me, è una macchia po’ antiestetica, ma ormai non ci bado più».
Una voglia di caffè, aveva pensato Achille, è un segno!

«Signorina, le vorrei chiedere un favore…».

 

Per la seconda e ultima parte del racconto, collegatevi domani pomeriggio alla stessa ora.