XIII domenica del tempo ordinario: Romano Dasti commenta il Vangelo

Duomo di Crema

DAL VANGELO SECONDO MATTEO 10, 37-42

Chi non prende la croce non è degno di me. Chi accoglie voi, accoglie me.

In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: “Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me; chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me.
Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà.
Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato.
Chi accoglie un profeta come profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto come giusto, avrà la ricompensa del giusto.
E chi avrà dato anche solo un bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa”.

IL COMMENTO

Sono parole molto forti quelle che risuonano nel brano evangelico di questa domenica, parte del cosiddetto “discorso missionario” del cap. 10 di Matteo: “Chi ama suo padre o sua madre più di me… chi non prende la sua croce… chi avrà tenuto per sé la propria vita…”. Appaiono, ascoltate nel loro nudo significato, di forte radicalità e impegnatività, molto difficili da accettare e da vivere. Ci aiuta a comprenderle il riferirle innanzitutto a Gesù stesso: quello che egli chiede a quanti decidono di seguirlo è in fondo quello che egli stesso ha scelto di vivere. Del resto, poiché il discepolo deve diventare come il maestro (Mt 10,24-25), non avrebbe avuto credibilità una richiesta ad altri che non si fondasse su una testimonianza personale. La richiesta di taglio netto con l’ambiente familiare e i suoi legami è coerente con la scelta dello stesso Gesù. Una scelta molto inusuale per il suo tempo, che lo esponeva a una condizione di precarietà, di mancanza di protezione. Una scelta non compresa né condivisa dalla famiglia che non credeva in lui (Gv 7,5) e lo considerava pazzo (Mc 3,21), tanto da indurre lo stesso Gesù a rifiutare di incontrarla (Mc 3,31-35).

Il detto “chi avrà tenuto per sé la propria vita la perderà e chi avrà perduto la propria vita per causa mia la troverà” è il più attestato nei Vangeli (uno dei pochi presenti in tutti e quattro). Sulla bocca di Gesù intende trasmettere ai suoi discepoli la radicalità e la durezza dell’aver scelto di porsi a servizio della costruzione del Regno. Il mettere in gioco totalmente se stessi è stato dello stesso Gesù, che fin dall’inizio del suo ministero pubblico compie scelte – il distacco netto dal suo ambiente familiare, l’itineranza e il celibato – controcorrente per il suo tempo. Tali scelte, il suo stile e il suo messaggio gli hanno attirato, insieme alla curiosità, allo stupore e all’entusiasmo delle folle, una crescente ostilità della classe dirigente e sacerdotale.

Il termine greco “psychè”, che riprende l’ebraico “nepès”, è tradotto giustamente con “vita” e rimanda alla vita nella sua complessità fisica, psicologica e morale e pure alla sua vulnerabilità. In passato l’utilizzo del termine “anima” (al posto di “vita”) ha contribuito a modificare in modo significativo il senso dell’appello di Gesù, spostandolo su un piano meramente etico, moralistico (appunto: salvare l’anima) e connotandolo principalmente nel senso della rinuncia, del sacrificio, fino all’idea di negazione di se stessi, di auto-annientamento, che è l’opposto dell’autentico messaggio di Gesù. Egli non ci chiede affatto di annientarci: “Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv. 10,10). La sofferenza (croce) non è una scelta, ma può essere una conseguenza del seguire Gesù e il suo Vangelo. A ben vedere, Gesù non ha assunto uno stile ascetico (come, ad esempio, Giovanni il Battista) né fatto una scelta monastica, tanto che spesso veniva criticato per essere “un magione e un beone”, amico di pubblici peccatori (Mt. 11,19).

La buona notizia del Vangelo di questa domenica mi pare allora l’appello a una coraggiosa scelta per il Vangelo. Una radicalità che deve essere (ed è) di tutti i credenti, non di particolari scelte vocazionali di consacrazione: la sequela di Gesù chiede a tutti di orientare la propria vita secondo lo spirito delle beatitudini, con il rovesciamento di prospettiva che contengono (beati i poveri, i miti, coloro che sono nel pianto, gli operatori di giustizia e pace). Il “discorso della montagna” è la “legge” proclamata da Gesù, nuovo Mosè, che per ogni credente, qualunque condizione di vita abbia scelto, fonda la radicalità delle proprie scelte. Non una rinuncia ma un guadagno; non un perdere ma un trovare.

Romano Dasti