IL RACCONTO DI ANNA – Il 27 gennaio non è un rito collettivo che esaurisce il compito, è un seme

Seme di pietra
Mio nonno, quel giovine che nel 1914 aveva circa 17 anni, mai mi parlò della guerra. Scherzava, mostrandoci le dita della mano “quante sono queste?” diceva, ma ricordo quel sorriso come smorfia. Cosa avesse dovuto inventare per sopravvivere a se stesso, alla propria paura, per far pace con quelle dita mancanti. Poi con lo stesso ghigno rispondeva “Tre e mezzo”.
Mi raccontava come avesse conquistato mia nonna Maria, donna minuta e raffinata pari ad una nobile, dal volto degno di dipinti, lui con quelle grandi mani interrotte di carezze storpiate e con lo sguardo forte dei suoi occhi azzurri. Del suo occhio azzurro. L’altro se lo era preso la guerra, per rischiarare il cielo.Anche sul suo sguardo mancante e l’occhio di vetro mio nonno aveva inventato storie, sfottò per chi imbarazzato scambiava per finto l’occhio rimasto, complice il ceruleo, incredibile colore. Così per spaventare lo sfortunato osservatore lo gabbava estraendo l’occhio di vetro, che l’interlocutore aveva ritenuto fino ad allora come occhio sano.

Cosa nasconde la guerra? No, non nei fatti di guerra.
Nelle morti, nelle stragi, nelle violenze, nei soprusi.
Di quelli ci si indigna, si protesta , si ricorda. Se ne prende le distanze.
Dentro di noi dove si rintana la guerra?
Mia madre invece raccontava. La guerra era paura. Sempre.
La guerra era lì, ovunque. La possibilità della morte, quotidiana.
Si recitava il rosario della paura nel silenzio delle notti, squarciate dalle sirene dell’allarme.
Si decideva nella giornata l’essenziale da portare nel rifugio. Ogni giorno una scommessa. La fuga era per i coraggiosi dei quali si era perduta ogni notizia. Come credere, quindi, fosse possibile fuggire senza alcuna certezza o speranza.
Così raccontava a noi che non chiedevamo nulla, della morte caduta lì vicina a lei che correva in bicicletta sul ponte e aveva accellerato ancor più, sentendo la sirena e della sua caduta che l’aveva salvata. Lì a pochi metri da lei cadeva un ordigno che aveva ucciso qualcuno. Quel qualcuno con il quale avrebbe potuto condividere la morte, la targa in memoria se non fosse caduta con la bicicletta.
E ora lo raccontava, forse un poco a scusarsi di quell’appuntamento mancato allo sconosciuto che aveva intravisto morire lì, solo.
Così già da piccola avevo compreso il valore della pace, di quanto inumana e incomprensibile fosse la guerra.

I ricordi di mio padre invece erano per interposta persona. Tentava di raccontare delle sue lotte partigiane ma subito veniva smorzato da mia madre “Lui è rimasto poco in montagna perché si mangiava male.” E nel proferirlo mia madre assumeva quello sguardo ridente e irridente che la caratterizzava, che la rendeva istrionica nella sua ostentata intelligenza e ironia. Credo che mio padre in quel momento l’avrebbe strangolata, ma prevaleva l’ammirazione per quello sfrontato coraggio femminile dal quale negli anni ’50 era rimasto intrappolato.

Nonostante questi saltuari racconti, la prima volta che incontrai l’orrore fuori da me, fu a Pavia, in una mostra di fotografie dei sopravvissuti e delle vittime di un campo di concentramento.
Sapevo cosa fossero. Il fratello di mia madre era ritornato da un campo dove, dopo l’armistizio, era stato rinchiuso dai nazisti. Dal confine aveva dovuto lasciare il treno e ritornare fino a Pavia a piedi, nascondendosi, incerto degli avvenimenti. Al suo arrivo nessuno lo aveva riconosciuto dato il suo pietoso stato di salute. Sembrava un fantasma. Neppure lui, raccontava molto.
Era vivo, questo era già un buon argomento esaustivo.
Eppure nonostante questi racconti, quelle fotografie incisero in me un solco preciso. Un solco doloroso ma efficace.
Il rigetto profondo del potere dell’uomo sull’uomo.
Una convinzione così radicata in me che non passa dalla testa.

Non ho ragionato e deciso ciò che sia giusto o ingiusto, ma so che aldilà del bene e del male, quello è ciò che non mi appartiene.
La guerra, l’odio, il potere è dentro ognuno di noi e solo sentendolo si può non esercitarlo.
Non capendolo con la mente.
La mente crea pensiero e ideologie che riescono a giustificare ogni abominio, ma il sentire del corpo no. Non riesce a mentire.
Abbiamo traccia dentro di noi, risonanza di ogni ingiustizia ma anche di ogni godimento del potere sull’altro.
Questo dobbiamo sapere.
La verità che sento è che questo abominio non si sia mai fermato.
Si è solo spostato dove era difficile da documentare, da mostrare.
Eppure anche ora che si mostra ovunque, non cessa.
Molti di noi parlano ancora di guerra necessaria. Di giusto e sbagliato.
Credo sia fondamentale mostrare a chi, per motivi generazionali, non abbia potuto ascoltare in famiglia i racconti, le testimonianze dirette dei sopravvissuti. Nulla più dei loro sguardi e dei particolari dei loro racconti può formare dentro un antidoto alla guerra.
Il 27 gennaio non è un rito collettivo che esaurisce il compito, è un seme.