Don Claudio Burgio. 450 studenti in ascolto

Nasce dall’amicizia e dalla coesione d’intenti di diverse realtà cremasche (l’Associazione Porto Palos, la Pastorale Giovanile Oratori della Diocesi di Crema, l’Arci di Ombriano, il Centro Culturale Cremasco S. Wyszynski e l’assessorato alla cultura del Comune di Crema) l’idea di invitare don Claudio Burgio a condividere la propria esperienza con i giovani delle scuole superiori della città.

Sabato 4 marzo, in una sala del Portanova, gremita da 450 studenti con relativi insegnanti e altri adulti interessati al tema, si è creato un silenzio quasi irreale quando il sacerdote milanese ha preso la parola. Il suo racconto ha tenuto sospeso un uditorio non facile da accontentare. Effettivamente la storia e la personalità di don Claudio lasciano alquanti spiazzati.

Dopo un percorso ‘normale’, un’adolescenza ‘normale’, una ‘normale’ passione per il calcio, una, anche quella ‘normale’ passione per la musica pop, la scelta del sacerdozio (questa meno ‘normale’ al giorno d’oggi), la sua vita prende una strada a-normale, in-consueta, che porta alla costituzione, insieme ad alcune famiglie del quartiere, della cooperativa Kairòs di Vimodrone (nel 2000), dove accoglie circa 50 adolescenti con precedenti penali. A ciò si affianca l’altra attività di cappellano presso il carcere minorile Beccaria di Milano (dal 2005). Una vita vicina quindi al limite, e a tante situazioni di emarginazione e disagio che sfociano poi in criminalità

Monica, coordinatrice dell’Associazione Porto Palos, conduce la lunga chiacchierata con alcune domande.

Dal coro di Milano alla trap. Come sei arrivato qui, cosa ti è successo?

Ho 53 anni, sono un po’ vecchietto ormai… Cosa c’entro con i giovani?

Il mio incontro con i giovani parte dalla trap. Ho sempre amato la musica, da giovane facevo pianobar, poi per tanti anni mi sono dedicato alla musica religiosa, ma della trap non sapevo nulla. Però ho avuto in casa ragazzi che si sono dedicati a questo. Come è iniziato tutto?
Anni fa al Beccaria ho incontrato un ragazzino timido e silenzioso, Zaccaria, che dopo un anno e mezzo che ci conoscevamo, mi chiede di venire in comunità da noi. Dice di volere fare musica, io gli propongo un piano B, un lavoro vero. Lui con sicurezza mi dice: No, io farò il cantante. Allora prendo sul serio questa determinazione: lo accompagniamo in studio di registrazione e lui si impegna davvero. Una volta mi fa ascoltare una sua canzone dal titolo “Tre occhi” e mi si apre un mondo: ma davvero il rapporto con tuo padre è così? Lui mi spalanca la sua vita e così è iniziata la fiducia tra noi. Il ragazzino in questione è Baby gang, uno dei più inquietanti rapper del momento. Per gli adulti è un pericolo sociale, per me è un ragazzo. Ascoltando le sue canzoni, mi sono chiesto: come è possibile che tanti ragazzi delle case popolari abbiano già vissuto tutte queste cose? La trap è il racconto di storie impossibili, eppure vere. E’ iniziato tutto così…con un incontro imprevedibile.
Dopo Zaccaria, ne ho conosciuto un altro, Sami (in arte Sacky) che proveniva dal quartiere di San Siro. Erano in camera insieme al Beccaria e sono diventati molto amici. Sami mi ha portato a casa sua, ho visto le case popolari Aler e sono rimasto scioccato: pensavo che certe cose esistessero solo nel terzo mondo, invece eravamo a 20 minuti dal Duomo! Bambini nella spazzatura che cercavano indumenti o cibo, case abusive senza riscaldamento, un ragazzino che portava la sorellina disabile su e giù dal quinto piano di un palazzo senza ascensore… Mi sono accostato a questo mondo. Ho imparato a conoscere quello che sta dietro il mondo musicale, dentro alle loro canzoni e alle loro storie. Queste seconde e terze generazioni hanno molto da dire a noi adulti, alle istituzioni.

Da dove nasce questo tuo sguardo verso i ragazzi considerati in genere solo come un problema? Non è scontato sfondare le apparenze…

Nei miei primi anni da sacerdote mi era stato affidato un oratorio nella periferia di Milano. Incontravo tanti ragazzi che non c’entravano molto con l’oratorio, però mi interessavano perché portavano un modo di essere giovane che mi incuriosiva. Poi arrivarono tanti migranti, e io davo loro un panino e li mandavo alla Caritas. E’ cambiato tutto quando un giorno è arrivato un ragazzino clandestino, un fenomeno a calcio. I ragazzi dell’oratorio mi hanno chiamato per conoscerlo, intuendo che con lui avrebbero vinto il campionato! Così hanno deciso di ospitarlo a turno nelle loro case, con le loro famiglie. Da lì ho pensato: se i ragazzi fanno una cosa così bella, perché io non posso farlo? Oggi quel ragazzo, Alain, è padre di tre bambini ed è uno dei miei educatori, oltre che ovviamente allenatore della squadra di calcio del quartiere.

L’incarico di cappellano al Beccaria, me l’ha assegnato il mio vescovo. Mai stato in un carcere in vita mia. Stando in quella realtà ho capito che non potevo appoggiarmi alle mie sicurezze di prete, al fatto che fossi una figura adulta e riconosciuta. Per quei ragazzi non contava nulla. Me la dovevo giocare, dovevo vivere con loro, con le loro vite, con i loro reati. Ho visto storie bellissime e drammatiche, ma tutte mi hanno fatto crescere: sono diventato un uomo più riconciliato con i miei limiti, un prete più credente.

Una storia bellissima è quella di Daniel contento di essere al Beccaria (rapina in banca) perché, a detta sua, “fa curriculum”: tre anni di carcere con vari trasferimenti per cattiva condotta. Uscito dal carcere, ne passa due anni da noi in comunità, ma, terminato il periodo, finisce nuovamente in cella, a San Vittore stavolta. Allora mi ricontatta per chiedermi di nuovo aiuto. Lo riprendo senza ombra di dubbio, nonostante tutti me lo avessero sconsigliato. Quella è stata la volta buona: è tornato a scuola a 23 anni e poi si è anche scritto all’università. E’ appena uscito il suo libro, dal titolo “Ero un bullo”, che vi consiglio (“Ero un bullo – La vera storia di Daniel Zaccaro” di Andrea Franzoso, De Agostini editore). A sostenere il mio sguardo c’è l’esperienza di tanti ragazzi come lui che sono cambiati.

Un paio di anni fa, in via Zamagna, c’è stato un problema: si erano riuniti 300 ragazzini per fare da comparse nel nuovo video del rapper Neima Ezza e c’è stata una sassaiola da parte dei ragazzini contro la polizia, intervenuta per disperderli. Dal loro punto di vista erano stati ingiustamente attaccati, proprio mentre cercavano di fare qualcosa di ‘pulito’. Ho bloccato le loro lamentele con la proposta di andare a incontrare il sindaco di Milano: è stato un dialogo fondamentale perché hanno capito che uno non si deve solo lamentare ma anche costruire. Tutti questi ragazzi mi stanno aiutando a fare progetti per i più piccoli nel loro quartiere. Se tu dai, qualcosa di bello nasce. Se ti lamenti e basta, non accade nulla. Anche nel male, nelle situazioni più disperate il bene lascia sempre qualche traccia. Sono abbastanza ostinato in questo sguardo. Anche se i momenti NO non mancano: ad esempio due ragazzi  della mia comunità sono spariti e sono diventati i più giovani jihadisti in Siria, mentre io non mi ero accorto di nulla, sottovalutando la situazione.

Il titolo del nostro incontro è “quella tremenda voglia di vivere” ed è una frase che ricorre spesso nel tuo libro “Non esistono ragazzi cattivi’. Dove vedi questa voglia di vivere in carcere? A noi tante volte già il semplice quotidiano sembra un carcere…

Alla vostra età tutti hanno voglia di spiccare il volo, ma i sogni non si realizzano subito
Così vedo che gli adolescenti attuano due fughe: quella introversa (ritiro sociale) o quella estroversa (ci si butta per la strada per realizzare subito quello che si vuole). Il motivo è comune: essere autonomi, arrivare da soli dove si vuole. Dietro c’è la voglia di realizzare qualcosa.
Però c’è un problema: voi siete captivi (dal latino captivus), cioè ostaggi di una dittatura del profitto, della prestazione a tutti i costi, del tutto e subito. Molti ragazzi hanno voglia di vivere ma non vogliono stare alle attese degli adulti. In carcere leggo sulle pareti delle celle frasi del tipo: Scusa, mamma, se ti ho deluso. Perché deluso? Un figlio  al Beccaria è una delusione?
Dico sempre ai ragazzi: sei finito in cella, ma non sei finito. Il Beccaria è un inizio.
Non avviene tutto e subito. Dietro a ogni traguardo ci sono giorni/mesi di fatica. Molti pensano che dietro ai soldi ci sia fortuna, e invece c’è tanta fatica. Anche realizzare una canzone costa tante ore di fatica. Parti dalle tue passioni perché, se vissute fino in fondo, ti porteranno sulla strada giusta.
Quando individui un adulto credibile, domanda di aiutarti. È così che si realizzano i sogni.

Poi magari, lungo la strada, i tuoi sogni cambiano. Io volevo fare il calciatore, poi il musicista, poi il prete. Oggi tutto torna (il mio amore per lo sport e per la musica sono tornati in forme diverse).
Al Beccaria oggi arrivano tanti pusher, che sono anche grandi consumatori di sostanze: la tragedia è che, quando ti senti fallito, inizi a consumare tanto. Quando inizi la tua giornata con una canna, hai già consegnato la tua vita alla sopravvivenza. La tremenda voglia di vivere ce l’hanno tutti, però bisogna rimanere lucidi. Baby gang le più grandi canzoni le ha scritte al Beccaria, quando era lucido e non poteva fare uso di sostanze.

I ragazzi hanno in se stessi, già dentro di loro, il grande maestro, che suggerisce tutto quello che serve per vivere. Però a volte non basta: da dove tirano fuori l’energia per riprendere in mano dopo un errore la loro vita? E quando ti accorgi che una vita sta ricominciando?

I ragazzi, quando arrivano in comunità da me, sono seduttivi, manipolatori, cercano un rapporto di tipo commerciale (il più diffuso tra gli adolescenti). E’ quello a cui sono abituati: costruire rapporti che possano fruttare loro qualche vantaggio. Mi accorgo che sta accadendo qualcosa di autentico quando mi domandano: perché fai il prete? Quando iniziano a parlare delle loro storie, si confidano, quando ammettono i loro errori e reati. Quando uno inizia a conoscersi in modo autentico, allora la vita ricomincia.

Tra adolescenti c’è un modo di rapportarsi che non è real: nel vangelo, invece, c’è un modo onesto di rapportarsi con le persone. Io cerco di essere così con loro: schietto. Litigando anche, se serve.
Ho visto i miei ragazzi sbagliare tante volte e tornare in carcere, mi sono domandato se io mi sarei comportato diversamente nelle loro condizioni, e mi sono risposto che non sono molto diverso da loro; quindi sono molto rispettoso dei loro sbagli. Credo fermamente nell’articolo 27 della nostra Costituzione secondo cui la pena non è fatta per punire, ma deve tendere alla rieducazione. Non rimango mai deluso se uno dei miei ragazzi sbaglia ancora. E’ una cosa che metto in conto. Quello che facciamo nella nostra cooperativa non è un do ut des, non ho bisogno di gratificazioni o ritorni. Penso che il mio compito si accompagnarli anche nei momenti NO, specialmente quelli dell’errore.
Come faccio a capire i ragazzi? Semplicemente perché li ascolto, sto con loro, ho imparato il loro linguaggio.  Oggi si confonde la potestas con l’auctoritas: se l’autorità la imponi, non viene più ascoltata; se l’autorità è una testimonianza credibile, viene ricercata dai giovani. Non basta essere bravi, avere competenze o studi specifici; è una sfida tosta. La fede mi ha permesso di affrontare i momenti più duri. Se non avessi avuto il vangelo come guida, mi sarei perso. E’ il vangelo che mi ha fatto capire che ogni persona è un dono e l’importanza del perdono, che non è mai una strada facile. Il tempo serve. Per questo la nostra cooperativa si chiama Kairòs, il tempo opportuno, che è diverso dal kronos, che scorre sempre. Non tutto il tempo è opportuno. Ognuno ha il suo kairòs. Il nostro motto è DIMISSIONI MAI. Quando prendiamo un ragazzo, non lo manderemo mai via per nostra volontà. E sicuramente quello che rende bella questa avventura è che cresco io, insieme a loro. Non cresci, se stai sempre con chi ti assomiglia. E’ l’incontro con il diverso che fa crescere.

La testimonianza è stata molto intensa e ha toccato il cuore dei presenti, come si è colto dalle moltissime domande dei giovani, che si sono alzati spontaneamente per dialogare con l’ospite.
E’ stato un momento molto importante per i giovani e di grande responsabilità civile dal parte della componente adulta presente, come sottolineato dalle sentite parole dell’assessore alla cultura Giorgio Cardile: “Don Claudio ha uno sguardo carico di amore verso voi ragazzi, raro da ritrovare nel tempo presente, in cui siete spesso etichettati con giudizi conclusivi per dei comportamenti che in realtà sono solo tipici della età adolescenziale. Come amministrazione vogliamo portare questo sguardo di amore nella città di Crema per dirvi che quando voi avrete bisogno, la città c’è”.