Degna è la vita di colui che è sveglio
Ma ancor di più di chi diventa saggio
E alla Sua gioia poi si ricongiunge
Sia lode, lode all’Inviolato.
Per capire chi sia davvero Franco Battiato (scomparso questa mattina all’età di 76 anni nella sua residenza di Milo dopo una lunga malattia), usiamo il tempo al presente e non a caso, per la sua coscienza dell’assoluto dopo l’impermanenza, dobbiamo partire da questa sua canzone del 1993 “Lode all’Inviolato”, perché qui, come in “E ti vengo a cercare”, “L’oceano di silenzio” e anche la giustamente venerata “La cura” sta il nucleo di una concezione della musica come aiuto alla comprensione e al Passaggio.
In questo Passaggio confluiscono le tracce del sufismo e della danza circolare dei Dervisci, ma anche una spiritualità che prende da molto più di quanto si pensi, perché buddismo e cristianesimo delle origini, anche se interpretato in modo che chiameremmo, con una inevitabile approssimazione, sincretistico, sono presenti nella sua ricerca.
Soprattutto una fede profonda nel dopo, certezza molto vicina alla visione della reincarnazione e quindi lontana dalla concezione cristiana, ma che ha rappresentato un argine contro le mode, le sconsolanti rappresentazioni neo-estetizzanti che riempiono la canzone stessa di una botta di attualità finalizzata al successo.
La sua Cura è da leggere in questo senso religioso, inteso non come adesione ad una fede, ma come dichiarazione di un amore totale, che non distingue più amato da amante, perché, e non a torto, alcuni hanno visto in questa stupenda composizione la dichiarazione d’amore di un dio per la sua creatura, affinché non si senta abbandonata nei momenti di crisi e di sconforto: una sorta di prova nel passaggio attraverso il qui e l’ora, di confessione di partecipazione dolente al male del mondo. Non rappresenta più l’interlocuzione verso l’amato/a in cui si manifestavano le consuete scelte tra profferta d’amore, lamentazione della non corresponsione, o, al contrario, rifiuto dell’amore o di chi se ne fa latore, addio, o abbandono per sempre delle sirene affettive o erotiche.
Le concezioni religiose che abbiamo detto e poi le letture profonde e molto personali di Gurdjeff, Guénon, Daumal pongono (continuiamo a usare il presente di “permanenza” di contro al passato dell’impermanente) i significati delle canzoni di Battiato – e di Sgalambro, che se ne è andato prima del suo amico e sodale – al di là delle immediate contingenze amorose, della coppia, dell’eros d’occidente, verso la ricerca che in questi anni è stata intrapresa anche dagli scrittori più laici, come il Carrére della splendida pagina finale di “Limonov “ (“La pace che ho sentito in certi monasteri”, – canta Battiato – “è solo l’ombra della luce”).
Ed è perciò giusto ricordarlo con le parole di un’altra canzone, “L’ombra della luce” non frequentata dai più, ma che esprime tutta la sua fede in ciò che non tramonta nell’occidente del dopo:
Riportami nelle zone più alte
In uno dei tuoi regni di quiete
E’ tempo di lasciare questo ciclo di vite
E non abbandonarmi mai
Non mi abbandonare mai.