Mentre tutti invocano una tregua che forse, però, nessuno vuole, i combattimenti tra ciò che Haftar e Serraj rappresentano, continuano. Chiaramente Tripoli è solo l’obiettivo immediato di uno scontro che pare insormontabile e che finora alcun attore locale o coinvolto è riuscito almeno a gestire. Sulla crisi libica pesano un’instabilità che dura ormai da un decennio, fatta di divisioni interne, ma anche un mancato impegno politico dei membri della Comunità internazionale o un’Onu meno occupata a mantenere l’equilibrio non tra i libici, ma fra chi ha interesse su quel territorio. Sono coloro che di fronte ad attacchi che configurano crimini di guerra e contro l’umanità sembrano volersi distaccare invocando la necessità di un confronto al tavolo delle trattative, invitando a porre fine all’uso della forza armata per lasciare lo spazio a strumenti negoziali. In un Paese frammentato questo non basta. E poi all’assenza di progetto, dagli stessi Stati non mancano l’invio di armi e l’interesse per la posta in gioco: le risorse naturali e non solo petrolifere.
Alle diverse forze in campo, all’assenza di una struttura di governo unitario, si unisce l‘incapacità di riportare le differenti milizie sotto un controllo istituzionale. Il tutto è retaggio della fine dell’impianto statale risalente al 2011 quando iniziò l’intervento esterno sulla Libia, ma senza una direzione o piano strategico di uscita. Il riconoscimento attribuito all’apparato governativo residente nella capitale, non ha tenuto conto dell’assenza di supporto da parte della popolazione – legittimato da chi? da Stati esteri e dall’Onu, non dai libici – manifestando l’impossibilità (non è una questione di capacità) di compiere il mandato che gli era stato affidato: dare una svolta alla crisi libica e giungere ad una transizione verso la democrazia.
I fatti più recenti sembrano disegnare un quadro in cui a contrapporsi è la Cirenaica alla Tripolitana, dimenticando i diversi gruppi locali (quelle tribù che la Jamaria libica aveva cercato di coordinare mediante il “governare strutturato”) tra i quali fioriscono le più diverse sigle jihadiste e sono evidenti gli spostamenti forzati di popolazioni. Ed ecco gli europei parlare di due minacce.
La prima, quella proveniente da attività legate al fondamentalismo, daesh o di marca salafita che è capace di diffondersi soprattutto nelle aree meridionali del Sahara e toccare i giacimenti del Fezzan, facendo leva su realtà miste di fuoriusciti da Paesi limitrofi portatrici di contrapposizioni già ai modelli di riforma intrapresi da Gheddafi.
L’altra è quella del non meglio stimato numero di persone in mobilità, ormai anche libici che si aggiungono ai migranti provenienti dall’Africa e fermi nei centri di accoglienza. Tutti animati dal desiderio di raggiungere ad ogni costo il suolo europeo per sfuggire alle maglie della povertà e del sottosviluppo, ma anche ad un’offensiva militare che si spinge fin verso i territori ancora controllati dal governo libico riconosciuto internazionalmente, ma che appare sempre più lontano dalla “Comunità internazionale nel suo insieme”.
Quello stesso governo che ha chiesto al Procuratore della Corte penale internazionale di avviare un’indagine sugli atti di guerra delle ultime settimane per rilevare crimini internazionali, ma ben sapendo dell’assenza di qualsivoglia controllo sulle operazioni militari condotte nel Paese rispetto agli standard previsti dal diritto internazionale. Beffa o monito per il Consiglio di Sicurezza che stenta a trovare un’intesa e giunge solo alla determinazione di chiedere una tregua in occasione della festa del sacrificio l’Id al-Adha del prossimo 12 agosto? Nel frattempo si allontana il processo politico che invece è l’unica possibilità per ridare ai libici stabilità e garanzie di pace nella regione.