CREMA – Intervista esclusiva al prof. Luca Siracusano, ospite della rassegna dedicata agli storici dell’arte

Per concomitanti impegni di sua eccellenza il Vescovo, la rassegna dedicata agli storici dell’arte organizzata dalla Libreria Cremasca, cambia sede e nome diventando ‘Storici dell’arte nella Sala musicale Giardino’: gli incontri si terranno infatti nella sala in via Macallè, 16 a Crema.

Sabato 11 maggio 2019 alle ore 16.30 si terrà l’undicesimo appuntamento della serie. Ospite sarà Luca Siracusano docente presso l’Università degli Studi di Trento, che presenterà la monografia dedicata ad Agostino Zoppo (Tipografia Editrice Temi, Trento 2017).

Professore, qual è stato il suo percorso di studi e cosa l’ha spinta a occuparsi di storia dell’arte?

In realtà è stato un percorso un po’ accidentato. Da bambino mi appassionavano le immagini, e dei libri di papà amavo le copertine, soprattutto quelle bellissime dei tascabili Einaudi di Italo Calvino, dove c’erano Albrecht Dürer o Paul Klee. Al liceo le mie materie preferite erano storia, filosofia e, appunto, storia dell’arte. Ancora oggi la storia dell’arte mi piace perché è un bel modo di indagare la storia, anche la storia delle idee, attraverso le immagini. All’università, però, mi sono inizialmente iscritto a Lingue e letterature straniere. Fu un errore: feci pochissimi esami, e dopo due anni ero sul punto di abbandonare gli studi. Per fortuna, anziché lasciare, sono passato al corso di laurea in Conservazione dei beni culturali, a Trento. E da lì la passione non mi ha più abbandonato. Ancora prima di laurearmi ho avuto la fortuna di partecipare per quattro anni a una campagna di catalogazione, che è stata un’ottima opportunità per vedere molto da vicino dipinti, sculture, oreficerie, tessuti antichi… Poi, grazie alle borse della Fondazione Roberto Longhi, mi sono trasferito a Firenze: una città dalla quale non riesco più a staccarmi, soprattutto per le sue ricchissime biblioteche di storia dell’arte. Ho proseguito gli studi con il dottorato di ricerca, di nuovo a Trento, ed è stata l’occasione per viaggiare tra archivi, musei e biblioteche, in Italia e all’estero. Siccome mi piace la divulgazione, per un po’ ho fatto la guida turistica. Quindi ci sono state altre borse di studio e assegni con enti di ricerca, con musei e con l’università, anche grazie a un bando della Fondazione Caritro, che ha finanziato un mio progetto. All’università insegno da ormai cinque anni. La mia posizione è ancora incerta, ma finora me la sono sempre cavata.

Agostino Zoppo (Padova, 1511 circa – 1572), scultore in marmo, terracotta, bronzo e stucco, è un nome poco noto al grande pubblico. Cosa l’ha spinta a dedicargli una monografia?

Direi che è un nome pochissimo noto anche tra gli storici dell’arte; prima di questo libro gli erano state dedicate veramente poche righe. Intendiamoci: Agostino Zoppo è un artista versatile e a volte originale, anche se non di primissimo piano. Ma proprio per il fatto di non essere il protagonista del suo tempo, Agostino ci aiuta a comprendere meglio tutto il contesto. Finisce addirittura per essere la chiave d’accesso ad aspetti centrali dell’arte veneta del Cinquecento: la produzione di piccoli bronzi, la lunga fortuna di Donatello, la cultura antiquaria, la ritrattistica, il rapporto fra gli artisti e i letterati, i nessi tra la pittura e la scultura, gli scambi collezionistici coi paesi di lingua tedesca…

In questo modo, il libro, pur presentando il catalogo ragionato dello scultore, ordinato in base alla tipologia delle opere (bronzetti, monumenti, statue, teste pseudo antiche, ritratti), diventa qualcosa di diverso rispetto a una monografia tradizionale, e vuole essere un’indagine sul contesto padovano del Cinquecento.

Quanto alla scelta del soggetto, devo dire che l’idea è maturata dopo la discussione della mia tesi di dottorato, che era appunto dedicata alla scultura padovana tra il 1530 e il 1620.

Grazie alla presenza di Donatello fra il 1443 e il 1453 Padova diventa uno dei centri più importanti per la produzione scultorea in particolare per quella in bronzo. Questo primato artistico e tecnico non viene meno dopo la partenza del fiorentino, ma è portato avanti da vari maestri fino ai primi anni del Seicento. Fra loro, nella seconda metà del Quattrocento, ebbe un ruolo di primo piano il cremasco Giovanni de Fondulis, padre del più noto Agostino. Ben diversa la situazione in Lombardia dove dopo i mai realizzati monumenti equestri progettati da Leonardo da Vinci, solo nella seconda metà del Cinquecento con artisti forestieri come Angelo Marini e Leone Leoni si assiste alla fusione di rare opere in bronzo. A Crema non sono presenti sculture in bronzo e anche dalle fonti si ha notizia dell’esistenza di una sola statua in questo materiale nella chiesa San Bernardino in città, oggi perduta.

Sì, a Padova la parabola della scultura in bronzo fu davvero gloriosa e si dipana dal soggiorno di Donatello, alla metà del Quattrocento, fino a Tiziano Aspetti, ultimo esponente di una schiatta di fonditori patavini, morto nel 1606. Oggi – è una posizione maturata solo negli ultimi dieci/quindici anni – riconosciamo Giovanni de Fondulis come protagonista nell’ambito della scultura in terracotta; ma in realtà l’artista cremasco, a Padova, dovette avvicinarsi anche al bronzo. Nel 1484, infatti, Giovanni si candidò al concorso indetto dalla Veneranda Arca di Sant’Antonio, quando si decise di ornare il coro della Basilica del Santo con un ciclo di rilievi raffiguranti Storie bibliche, da fondere nel nobile metallo. Alla gara presero parte anche i due allievi di Donatello: il fiorentino Bertoldo di Giovanni e il padovano Bartolomeo Bellano, e fu quest’ultimo a spuntarla. Purtroppo, però, ancora non disponiamo di un solo bronzo riconducibile a Giovanni de Fondulis; una parte della critica gli attribuisce il bellissimo monumento dedicato ai giuristi de Castro, nella chiesa dei Servi di Maria (ma quest’opera potrebbe spettare ad Andrea Riccio, che presso de Fondulis svolse una parte della sua formazione). Spero che nei prossimi anni si potrà fare luce su questo aspetto, molto importante, ma ancora nebuloso.

Quanto ad Agostino Zoppo, i suoi sono soprattutto piccoli bronzi. Mi affascina che i bronzetti padovani del Rinascimento siano spesso oggetti d’uso, come bracieri, lucerne o calamai, destinati agli studioli degli umanisti. Oggi facciamo fatica a godere di questi oggetti, che per ovvie ragioni restano chiusi nelle vetrine dei musei; ma in origine andavano toccati con mano, un po’ come accadeva per le monete antiche o le medaglie rinascimentali (le quali, però, venivano ‘contemplate’, e non propriamente ‘usate’).

Quali sono gli esordi di Agostino Zoppo e quale era il panorama artistico a Padova negli anni Trenta del Cinquecento?

Secondo una revisione dei documenti, Agostino dovette nascere nel 1512 circa, e quindi quasi dieci anni prima di quanto si pensasse. Nel Rinascimento un giovane avviava il proprio iter formativo come garzone di bottega verso i quattordici anni. Figlio di un modesto lapicida originario di Asola, Agostino entrò adolescente nella bottega di Guido Aspetti detto Lizzaro, padre di Tiziano Aspetti detto Minio, che a sua volta fu lo zio di Tiziano Aspetti il Giovane: vale a dire che lo Zoppo si formò presso la più importante officina di fonditori patavini. Qui imparò l’arte della toreutica, per poi passare brevemente nella bottega di Giammaria Mosca, attivo soprattutto quale marmorario.

Agostino dovette esordire come maestro autonomo proprio negli anni Trenta. Era, quello, un momento davvero magmatico, nel quale davanti a un giovane si aprivano diverse strade possibili. Erano da poco morti i protagonisti del primo Cinquecento: Andrea Riccio e Tullio Lombardo, campione assoluto del classicismo più aulico. Altri scultori, come il già citato Giammaria Mosca, stavano cercando di forzare dall’interno il classicismo dei primi decenni del secolo, disponendo le proprie figure in complicate pose ‘serpentinate’. Nel frattempo, però, Jacopo Sansovino, approdato a Venezia in fuga dal Sacco di Roma, si stava affermando quale nuovo scultore di riferimento, diffondendo le novità linguistiche e tecniche maturate nell’Italia centrale: tra queste ultime va ricordato lo stucco, riportato in auge dall’équipe di Raffaello a Roma. Proprio a Padova, nella Cappella di Sant’Antonio, abbiamo il primo grande soffitto veneto interamente rivestito di stucchi bianchi e dorati, messi in opera nel 1533-1534 sotto l’egida di Silvio Cosini, artista irrequieto e girovago, legatissimo a Sansovino.

Agostino, per parte sua, muove dalla tradizione di Andrea Riccio per produrre bronzi molto originali, come le ‘Montagne infernali’; timidamente si avvicina a Jacopo Sansovino, pur palesando l’iniziale passaggio dalla bottega di Mosca: è insomma un giovane artista propenso a sperimentare in più direzioni, che cerca di trovare la propria strada. La troverà dopo il 1540.

Appunto, le ‘Montagne infernali’: sono opere che nella produzione padovana di questi anni spiccano per bizzarria. Di che cosa si tratta?

Le ‘Montagne infernali’ sono una fantastica proiezione tridimensionale dell’aldilà pagano. Sono in bronzo, misurano in altezza poco meno di trenta centimetri e se ne conoscono cinque esemplari, tutti diversi tra loro. Il Tartaro è raffigurato come un monte roccioso, dove in forma di statuetta troviamo i mitici personaggi condannati da Giove a scontare una pena eterna: per esempio i Titani, per metà conficcati nella roccia; Tizio, al quale un’aquila perennemente divora le viscere; Sisifo, costretto a trasportare un gigantesco masso; ma anche le Furie, poste a vigilare l’ingresso dell’Ade, ovvero il cane a tre teste Cerbero e la sua mostruosa madre Echidna. Queste creature dall’aspetto ferino, in origine, dovevano apparire ancora più truci: alcune di esse hanno la bocca e gli occhi forati, dai quali esalavano fumo e bagliori.

Le ‘Montagne’ (o meglio, certamente le due ‘Montagne’ custodite al Victoria and Albert Museum di Londra) erano infatti dei bruciaprofumi: il loro interno è cavo, e ospitava un recipiente nel quale ardevano le essenze. Una volta acceso il braciere, le ‘Montagne’ dovevano assumere un aspetto davvero pauroso.

Si tratta di un’invenzione molto originale, senza precedenti nei bracieri padovani del primo Cinquecento. L’immaginario, in ogni caso, è in parte ancora legato a certe opere di Andrea Riccio, come la Discesa negli inferidel Louvre di Parigi; è poi vivo il ricordo delle incisioni tirate per il volgarizzamento delle Metamorfosidi Ovidio, del 1497, sebbene non sia possibile individuare per queste bizzarre sculture una precisa fonte letteraria.

Per quasi un secolo gli storici dell’arte hanno dibattuto sulla loro paternità, senza mai pensare ad Agostino Zoppo, che nel primo Novecento era poco più che un nome. Solo nel 1975 Manfred Leithe-Jasper intelligentemente riconobbe in questi bronzi le “montagne” citate nell’inventario postumo della bottega del nostro scultore. È proprio da questa felice intuizione che è cominciata la riscoperta di Agostino.

Qual è l’opera che sancisce la raggiunta fama del nostro scultore?

Il momento della consacrazione giunse senza dubbio nel 1547, quando il suo più grande estimatore, Alessandro Maggi da Bassano, gli affidò la costruzione del Monumento a Tito Livio nel Palazzo della Ragione di Padova: un incarico di grande prestigio, data la centralità dell’opera nella cultura antiquaria patavina. Maggi, allievo di Pietro Bembo, era stato incaricato di occuparsi del monumento per conto del consiglio cittadino; era ormai il regista delle maggiori imprese artistiche cittadine, e aveva già curato il programma iconografico degli affreschi della Sala dei Giganti presso il Palazzo del Capitaniato, nel 1539-1541. Il nobile, peraltro, aveva in casa una testa di marmo, oggi perduta, ma all’epoca creduta antica e giudicata l’autentica effigie di Tito Livio (del quale, però, ancora oggi non conosciamo le vere sembianze). Già nel 1545 Agostino Zoppo aveva prodotto di quella testa una derivazione in bronzo, oggi custodita presso il Muzeum Narodowe di Varsavia. Nel 1547, invece, per il monumento pubblico, realizzò un busto marmoreo esemplato sulla perduta testa lapidea posseduta da Maggi; fuse inoltre una targa di bronzo e quattro personificazioni dello stesso materiale. Nell’edicola reimpiegò l’epigrafe romana allora erroneamente associata all’antica tomba di Tito Livio (solo alla metà del Seicento ci si accorse che l’iscrizione commemora in realtà un oscuro liberto, omonimo dell’autore dell’Ab Urbe condita). Quello dello Zoppo è un vero e proprio monumento funerario, perché nel Palazzo della Ragione vennero tumulate anche le ossa rinvenute nel Quattrocento presso il monastero di Santa Giustina, allora molto ottimisticamente associate a Tito Livio.

L’opera suscitò grande ammirazione ed è ricordata da un numero impressionante di fonti: Padova era una città cosmopolita, per la presenza dello Studio universitario, e tutti i forestieri, di passaggio o di stanza, italiani o stranieri che fossero, si recavano a rendere omaggio alle spoglie dello storico latino. Il fatto è che quasi subito si perse memoria della paternità artistica dello Zoppo. Anzi, già Michel de Montagne, nel 1580, poteva scambiare il busto per un originale romano. E così il nome dello scultore è stato recuperato quattrocento anni dopo, nel 1980, grazie a un documento rinvenuto da Giulio Bresciani Alvarez.

Per la produzione artistica della città sono importantissime le commissioni di intellettuali, collezionisti ed eruditi legati all’Università di Padova. Chi furono i principali estimatori di Agostino Zoppo?

È vero, le maggiori occasioni per gli artisti padovani provenivano dalle élite intellettuali – i professori dello Studio universitario, o comunque gli eruditi, magari affiliati a qualche accademia – ovvero dalla Basilica del Santo. Se però la Veneranda Arca di Sant’Antonio, nei decenni centrali del Cinquecento, fu poco incline a commissionare opere agli artisti locali, preferendo semmai i maestri forestieri, furono gli eruditi padovani a favorire il nostro Agostino. Il suo mecenate fu Alessandro Maggi da Bassano, che abbiamo appena ricordato a proposito del Monumento di Tito Livio. Lo Zoppo formava, insieme al medaglista Giovanni da Cavino e al pittore Domenico Campagnola, dei quali fu amicissimo, la triade degli artisti preferiti da Maggi. Per questo committente, nel lungo arco di tempo dal 1545 alla morte nel 1572, lo scultore eseguì almeno tre teste pseudo antiche (due in marmo e una di bronzo – quest’ultima, come abbiamo visto, ispirata al presunto ritratto di Tito Livio); il già citato monumento liviano; e un’altra testa all’antica in bronzo, raffigurante questa volta Giulio Cesare. Sospetto poi che anche la partecipazione dello Zoppo al Monumento di Alessandro Contarini nella Basilica del Santo sia stata favorita da Maggi, perché nello stesso periodo l’erudito collaborava con Michele Sanmicheli, architetto di quel grandioso sepolcro.

Sicuri sono anche i contatti con il giurista Marco Mantova Benavides, il più munifico committente privato della Padova di allora, salutato dai contemporanei come “amico e mecenate di virtuosi, pittori e scultori”. Il dotto poligrafo, collezionista vorace, comprò dagli eredi di Agostino una non meglio precisata “figura” quando, dopo la morte dello scultore, il fondo della bottega fu venduto all’incanto. Nella collezione Mantova Benavides, peraltro, confluirono circa venti teste in stuccoforte, oggi presso il Museo di Scienze archeologiche e d’Arte dell’Università di Padova, alcune delle quali sembrano riconducibili ad Agostino e potrebbero essere identificate nei modelli in precedenza documentati nell’officina dell’artista.

Fra le opere più ricercate dai collezionisti c’erano proprio le teste di personaggi dell’antichità.

Le teste pseudo-antiche prodotte in Veneto erano molto richieste sia dal marcato interno sia da quello d’oltralpe. È un tema molto affascinante, che può essere approcciato in diversi modi. Simili sculture ci pongono davanti a una serie di domande, alle quali non sempre riusciamo a rispondere. Per esempio, a volte l’iconografia degli uomini antichi poteva divergere, nel Cinquecento, rispetto alle nostre conoscenze attuali. Questo è il caso di Tito Livio, di cui abbiamo già discusso; si può anche ricordare che il volto oggi associato al poeta greco Menandro veniva attribuito, nel XVI secolo, al condottiero romano Gneo Pompeo Magno. Non sempre è possibile ricostruire la catena di trasmissione dei soggetti. Per altro verso, alcune sculture prodotte a Padova e giunte fino a noi derivano puntualmente da prototipi antichi, come la testa in stuccoforte di Vitellio, legata al marmo appartenuto ai Grimani; altre teste, invece, sono delle libere creazioni rinascimentali, come il cosiddetto Milico, riconducibile allo Zoppo. Non è facile capire come nascessero queste ‘invenzioni’: forse rielaborando un prototipo antico; forse traendo ispirazione da una descrizione letteraria; o forse prendendo spunto da un profilo monetale. Attribuire questo genere di oggetti, infine, è molto difficile, anche perché in alcuni casi la produzione poteva essere velata da intenti fraudolenti, col fine di spacciare l’opera moderna per genuinamente antica.

In ogni caso Agostino fu molto apprezzato come autore di teste pseudo-antiche: lo assicurano le fonti d’archivio. In questo contesto è molto importante la vicenda delle teste in stuccoforte appartenute a Mantova Benavides, che abbiamo detto confluite nel patrimonio del Museo di Scienze archeologiche e d’Arte dell’Università di Padova. Esse assolvevano diverse funzioni: erano modelli di bottega; potevano essere impiegate come oggetti decorativi, sulle scansie o nelle nicchie di un palazzo privato; erano matrici dalle quali ricavare potenzialmente infinite repliche in bronzo. Per questo genere di oggetti, le ultime due funzioni sono attestate da lettere prodotte nell’ambito del collezionismo antiquario bavarese. Non è allora un caso che alcune repliche in bronzo delle teste Mantova Benavides si conservino presso il Bayerisches Nationalmuseum di Monaco. Il Veneto e la Germania erano collegati da una rete di agenti e intermediari, e di questa congiuntura approfittò senza dubbio anche Agostino.

Infine l’ultima tipologia di sculture in cui si cimenta Agostino Zoppo sono i cosiddetti ‘busti all’antica’. È un particolare tipo di sculture che si diffonde in tutta Italia verso la metà del Cinquecento con varianti da città a città. In cosa si caratterizza la tipologia padovana?

Contrariamente alla vicinissima Venezia, Padova fu sempre molto ricca di busti, fin dall’età medievale: in quanto città universitaria, le sue chiese erano ricche di monumenti funerari dotati di una imago cathedrata, e cioè di quel ritratto nel quale il lettore universitario è effigiato, spesso a mezzobusto, mentre svolge la lezione, o comunque mentre è nello studio, immerso fra gli strumenti del suo mestiere (il calamo, la scansia, il libro). Dopo la metà del Cinquecento, e a partire dal Cenotafio di Pietro Bembo nella Basilica del Santo, realizzato da Danese Cataneo entro il 1550, questa iconografia scomparve per lasciare il posto al busto all’antica, un tipo di ritratto che aveva già fatto la sua comparsa in altre realtà territoriali (Mantova, Bologna, Firenze, Roma, Napoli…). Il retro della scultura si presentava adesso cavo, e la profilatura, tondeggiante, veniva adagiata su un peduccio: proprio come nei busti antichi. Il nuovo tipo si diffuse a Padova sia entro i monumenti funerari, sia nei palazzi privati.

In modo un po’ schematico, le peculiarità dei busti padovani della seconda metà del Cinquecento si possono riassumere in quattro punti: spesso questi ritratti sono in terracotta o in bronzo, in accordo con la gloriosa tradizione fittile e toreutica cittadina; quasi mai presentano il paludamento all’antica, mentre vi riscontriamo una fresca descrizione dell’abito contemporaneo; contrariamente agli ammonimenti di certa trattatistica, poi, i difetti fisici dell’effigiato non sono nobilitati, ma anzi vengono presentati in modo piuttosto schietto; spesso, infine, l’impaginazione del busto si rifà al ritratto bronzeo di Lazzaro Bonamico, realizzato da Danese Cataneo verso il 1554 (esplicitamente indicato da un committente patavino come opera esemplare ancora nel 1605).

Alcune di queste sculture sono approdate oltre Manica, e molte oltre Oceano: è interessante che i più grandi conoscitori del secolo scorso, da Wilhelm Bode a Leo Planiscig, da Ulrich Middeldorf a John Pope-Hennessy, le abbiano etichettate come “veneziane”. Solo negli ultimi vent’anni, grazie anche al confronto con le opere tutt’ora custodite nelle chiese patavine, è stato possibile riconoscerle come “padovane”. La città universitaria presenta insomma una sua specificità in questo campo, che ora siamo in grado di mettere a fuoco.