STORICI DELL’ARTE A PALAZZO VESCOVILE – Intervista esclusiva a Fulvio Cervini

Per concomitanti impegni di sua eccellenza il vescovo, la rassegna dedicata agli storici dell’arte organizzata dalla Libreria Cremasca, cambia sede e nome diventando Storici dell’arte nella Sala musicale Giardino: gli incontri si terranno infatti nella sala invia Macallè,16 a Crema.

Sabato 16 marzo 2019 alle ore 16,30 si terrà il decimo appuntamento della serie. Ospite sarà Fulvio Cervini, docente di storia dell’arte medievale all’Università degli Studi di Firenze, curatore della mostra Alessandria scolpita. 1450-1535. Sentimenti e passioni tra Gotico e Rinascimento, catalogo della mostra (Alessandria, 14 dicembre 2018 – 5 maggio 2019) Sagep Editori, Genova 2019.

Professore, qual è stato il suo percorso di studi e cosa l’ha spinta a occuparsi di storia dell’arte?

Mi piaceva la storia fin da bambino, ma ho deciso di studiare storia dell’arte nell’ultimo anno del liceo. Ebbi la fortuna di incontrare un’insegnante capace di trasmettere motivazioni ed entusiasmo. E mi resi conto che interrogare dipinti e sculture come fonti era un bel modo di fare storia. Ho studiato all’università di Firenze con Adriano Peroni: è allora che mi sono orientato più decisamente verso il medioevo. Va da sé che dopo un percorso formativo abbastanza classico (dottorato e borsa post-doc), e dopo un periodo di precariato non meno inevitabile, ho lavorato per diversi anni in Soprintendenza a Torino, prima di riapprodare all’università: il che mi ha costretto ad occuparmi degli oggetti più disparati, maturando un’esperienza fondamentale che continua a fruttare anche didatticamente.

Secondo la tradizione cronachistica la città di Alessandria fu fondata il 3 maggio 1168dall’unione di otto luoghi. Tra il 1174 e il 1175 fu schierata contro l’imperatore Federico Barbarossa da cui fu assediata fino alla resa. Dopo alcuni decenni in cui si resse come libero comune, entrò nell’orbita d’influenza della Milano viscontea fino alle formale dedizione al Ducato di Milano (ormai governato dagli Sforza) nel 1450. In seguito Alessandria invece rimase parte del Ducato di Milano, sia durante il periodo sforzesco (1450-1535) sia durante il periodo della dominazione spagnola fino al 1707 quando fu conquistata da Eugenio di Savoia e con il successivo trattato di Utrecht del 1713 divenne parte del Piemonte sabaudo tagliando definitivamente i legami amministrativi con la Lombardia.

La mostra racconta la cultura figurativa ad Alessandria durante gli anni del governo sforzesco, perché è stato scelto questo periodo?

In verità la mostra comincia un poco prima del 1450 e finisce dopo il 1535: ma i termini ideali sono significativi perché è proprio in questo periodo che matura quella che si potrebbe chiamare la via alessandrina al Rinascimento, e che culmina nei primi due decenni del Cinquecento, quando questo territorio declina nuovi modelli in forme originali, specie nel campo della scultura lignea. La forbice cronologica serve anche a mostrare come il linguaggio artistico viaggi dalla tensione espressionistica dei crocifissi dolorosi di medio Quattrocento al patetismo sentimentale, e davvero “leonardesco”, diffuso da Giovanni Angelo del Maino dopo il 1500.

Amministrativamente in questo periodo la città fa parte del Ducato di Milano. Quanto è lombarda l’arte ad Alessandria? Quali altre influenze artistiche si registrano? Esiste un linguaggio figurativo Alessandrino?

La mostra punta proprio a dimostrare che Alessandria ha svolto storicamente – e a maggior ragione tra Gotico e Rinascimento – una funzione di cerniera tra mondo nordico e Mediterraneo, ovvero tra Lombardia e Liguria: Genova e Savona da una parte, e dall’altra Milano e Pavia, ma anche Cremona e Piacenza. Alessandria è l’epicentro di un territorio dove prosperano centri più antichi e parimenti produttivi (come Casale, Tortona, Acqui), ed è lombarda in un modo suo proprio. Media, rielabora e rilancia idee. Anche nel senso che fornisce maestranze da esportazione: basti pensare al pittore Giovanni Mazone o all’intarsiatore Anselmo de Fornari da Castelnuovo Scrivia.

Fra Settecento e Novecento Alessandria subisce profonde trasformazioni urbanistiche che rendono difficilmente percepibile la sua storia attraverso le architetture, ecco allora che tocca alle opere mobili (sculture, pitture, oreficerie…) raccontare l’Alessandria dei secoli passati.

L’Alessandria prebarocca è in effetti una città in larga misura negata, che bisogna riscoprire sotto l’epidermide decorosa ma un po’ compassata della città sette-ottocentesca. Per questo (oltre che per problemi di trasporto, in qualche caso) abbiamo lasciato diverse opere nelle loro sedi abituali, invitando i visitatori a riscoprirle in loco. In mostra è largamente rappresentato il territorio, più che la città, coinvolgendo Asti, il Monferrato e l’antico Oltergiogo genovese. L’Alessandria grigia che ci rappresentiamo spesso era in realtà una contrada decisamente più dorata e colorata.

Grande importanza rivestono le sculture in legno e in terracotta: come è progredito negli ultimi decenni lo studio di questi manufatti per lungo tempo trascurati?

Proprio l’inamovibilità di molti capolavori ha impedito di portare in mostra le terrecotte che ci sarebbero dovute idealmente essere. Ma basta gettare uno sguardo al magnifico Compiantodi Santa Maria di Castello per rendersi conto che intorno al 1500 la scultura in terracotta era un’arte guida al pari della scultura lignea: di cui invece abbiamo fatto la spina dorsale della mostra perché illustra mirabilmente un concerto fra le arti di qualità altissima. Negli ultimi vent’anni la conoscenza della scultura in legno ha fatto enormi passi avanti soprattutto grazie al lavoro sul campo degli uffici di tutela, e dunque grazie alla catalogazione e al restauro. Inoltre è cambiato il modo di guardare questi manufatti, un tempo percepiti come documenti di una produzione di seconda fascia, laddove si tratta spesso di opere capitali che dialogano con tutte le arti, talvolta anticipandole.

Quali sono le scoperte più rilevanti ?

In generale, l’avere riconosciuto la qualità di una larga fioritura lignea locale nel primo Cinquecento. Ci sono poi alcune opere praticamente inedite, come il nobile Cristo depostodi Ozzano, il tormentato Crocifissodi Masio o la sorprendente Santa Caterinadi Castelnuovo Scrivia, di una delicatezza proto quattrocentesca che viaggia tra Milano e Parigi. Per la prima volta si presentano al pubblico una tavola di Pietro Grammorseo acquisita sul mercato antiquario dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria, proveniente dallo smembrato polittico per San Francesco a Casale, e un rilievo dalla macchina lignea progettata da Giorgio Vasari per Santa Croce a Bosco Marengo, conservato a Roma nel Palazzo di Venezia, che dal XIX secolo più nessuno aveva visto ad Alessandria: in tutti i sensi l’epilogo della mostra.

Nel Cremasco si conserva un compianto ligneo opera di un scultore della cerchia di Urbanino da Surso, storicamente conservato nel santuario del Marzale e da pochi anni nella cripta della Cattedrale. Qual è l’importanza dello scultore pavese Urbanino e del figlio Baldino da Surso nel contesto alessandrino?

L’atelier dei da Surso svolge una funzione importante di aggiornamento del linguaggio nel terzo quarto del XV secolo, attraverso una combinazione calibrata di naturalismo e grazia flessuosa. Esso divulga in zona soprattutto un modello di crocifisso, attestato per esempio a Novi e Ovada oltre che ad Alessandria stessa, e documentato in mostra dall’esemplare di Palazzo Madama a Torino, proveniente dall’abbazia di Sezzadio, che stempera la tensione lineare dei Cristi dell’area delle Alpi Marittime, dominante nel primo Quattrocento. Ma è proprio a Baldino che si deve anche un gruppo che avrà grande impatto devozionale, come la Madonna della Salvetuttora veneratissima nella Cattedrale di Alessandria.

Qual è il valore civile e ‘politico’ di una mostra come questa che presenta al pubblico anni e anni di attività di ricerca, catalogazione e restauro svolta sul territorio e della collaborazione tra Soprintendenza, Diocesi, Enti territoriali e associazioni?

Il valore risalta sia dalla presentazione di queste novità, sia dalla nuova veste di opere che si credeva di conoscere, come lo splendido polittico di Gandolfino da Roreto in San Dalmazzo a Quargnento, presentato in mostra dopo il restauro finanziato dalla Consulta per i Beni Culturali dell’Alessandrino. Senza conservazione del patrimonio non c’è conoscenza, e senza conoscenza non c’è futuro. Proprio il patrimonio culturale è una risorsa irrinunciabile per assicurare un futuro a una comunità, per piccola o grande che sia. Dunque la mostra è un invito ai cittadini a riflettere su questo patrimonio, a farsene difensori e interpreti attraverso tutti i soggetti istituzionali coinvolti, dai comuni alle diocesi. E a riflettere anche sulla funzione fondamentale delle Soprintendenze territoriali, purtroppo fortemente mortificate da una riforma del Ministerro per i Beni e le Attività Culturali che ha impoverito la tutela sul campo a tutto vantaggio dei musei e di una valorizzazione del patrimonio in cui l’aspetto monetario prevale spesso su quello civile.