IL RACCONTO DI ANNA – … nessuno ci ha mai lasciato giocare

fiore
Disegno realizzato da un ospite anziano negli incontri di arteterapia

“No, qui non ce la farò mai: qui non c’é nulla da fare.”È chiaro: si tratta di un filtro tra me e la realtà di quotidiana ineluttabile sofferenza presente.

La sala si presenta enorme, disposta a elle, con  tentativi di decorazione che non riescono a cancellare l’idea dell’istituzione.
Gli anziani stanno seduti, quasi schierati su tutti i lati, sembrano guardare, sembrano aspettare, in realtà non succede nulla: il ripetersi monotono del rito del caffè, del tè con il carrello spinto dall’ausiliario di turno e il codazzo invadente di chi lo vorrebbe bere per primo, o più volte e che inevitabilmente resterà ultimo.
Il rito del clistere crea una sorta di processione alternata dalle poltroncine al bagno.
La televisione è accesa ma chi vi è seduto davanti dorme, niente di strano direi, fa lo stesso effetto anche a me.

Nessuno parla con l’altro tranne che per rivendicare soprusi o evitarli.

Un anziano s’aggira indossando dei jeans, un berretto  da baseball messo da monello di traverso, agita un braccio, indica qualcosa che lui sa, sottolinea la sua presenza emettendo ininterrottamente suoni gutturali, l’altro braccio quasi inerte lungo il fianco stringe nella mano una borsina di plastica piena di oggetti afferrati qua e là.

Nonostante questo invadente tappeto di rumore, dentro di me risuona un grande silenzio.
Entrando “sento” il peso delle giornate sempre uguali, i pensieri che si ripetono, gocce che col tempo scavano baratri nella presenza e rendono queste persone fantasmi di se stesse.

Poi un niente, la mia stretta di mano, il mio sorriso scatena in loro una reazione inaspettata, un abbraccio, la lacrima, un complimento sentito e il mio filtro si scioglie senza lasciare aloni: e “vedo” queste persone nella loro forma attuale, non paragono, non cerco… sto con tutta la mia compassione e ascolto i miei sorrisi e le mie parole senza paura che siano sbagliate, suoni nuovi a inchiodare lo scorrere del tempo con il segno, la presenza, il corpo.

Sono  felice, quando esco, la testa corre in ogni luogo: ho voglia di danzare per loro.

Il mio lavoro inizia con un periodo di osservazione: voglio capire quali siano le  situazioni nelle quali andrò ad agire, che tipo di patologie siano presenti, quali attività oltre le terapie farmacologiche “indispensabili” siano presenti, la dimensione dei reparti, l’organico paramedico presente.

Il clima, gli odori e i rumori  con cui questi anziani  condiscono il pasto della loro vita presente.

Mi è subito chiara, lampante una cosa: questo è un luogo molto ben curato, pulito, nulla sembra sfuggire a coloro che fanno le pulizie, agli ausiliari, agli infermieri; sembrano tutti rilassati ma concentrati, di quel genere di persone insomma che fanno il proprio lavoro al meglio senza doverlo dimostrare a nessuno.
I risultati si vedono.

Gli anziani per quanto assenti, urlanti, agitati, sono tutti vestiti con attenzione e cura: questo fa sì che anche i loro comportamenti più “strani” mantengano la dignità di una manifestazione di malessere che non riesce a comunicarmi l’impossibilità del contatto.

Quando arrivo nel reparto l’impatto è forte.
Dove collocarmi, che fare, chi sono io qui e che vengo a fare, vengo a osservare, si dice, ma io, anche in questa fase, voglio essere, sentire non starmene come un aspirante veterinario allo zoo.
Porto me stessa, la mia educazione che mi porta a chiedere, a dare nulla per scontato.

“Posso sedermi? Io mi chiamo Anna lei come si chiama?”
Non fingo di capire quando non capisco le parole formulate da bocche sigillate dall’abbandono, paurose del suono lungamente represso negli anni, in quasi tutto il tempo della loro vita, quel suono così difficile da formulare in parola.

La parola mai ascoltata perde l’intenzione d’arrivare, incespica nei denti mancanti o al contrario si manifesta come saliva di bocca chiusa, si mostra nella sua incontenibile presenza; lì, dietro questi sguardi non dati, queste parole catturate o stroncate, la persona c’é e io vado all’incontro, voglio percorrere quella strada interrotta fosse solo un minuto o un sorriso, voglio portare la mia autenticità, le mie mani calde.

Il contatto con gli anziani è intenso, le parole quando escono sono motivate e solerti, al tempo stesso sento di dover prestare la massima attenzione al ritmo della parola e del gesto. Sono, cerco di essere autentica ma al tempo stesso prudente.

Gli anziani mi guardano, non so se mi vedono, alcuni di loro sono quasi ciechi, credo che mi percepiscano come una nuova animatrice. Ritengo quasi dannoso questo approccio, rispetto all’attività che andrò a svolgere.

Gli incontri di “osservazione” si ripetono: è come conoscere un nuovo alfabeto prima ch’io possa davvero formulare parole atte a comunicare “realmente”.
Ad ogni nuovo incontro mi muovo di più, le mie braccia si distendono lungo il corpo, mi sento sempre meno sotto esame.

Dico che porterò la musica perchè alla parola danza, sento in loro il rifiuto.
Per quel corpo rinchiuso da decenni in istituto, la parola danza evoca feste in cortili, giovinezze stroncate da malattia e il ricordo di una famiglia che li ha nel tempo abbandonati.

In un reparto di 45 anziani solo due ricevono visite da familiari, solo uno riceve visite settimanali.
L’età media è di 70 anni; il periodo di istituzionalizzazione intorno ai 35 anni; le patologie iniziali presenti vanno da schizofrenia, frenastenia, oligofrenia, epilessia in grave decadimento, ritardo mentale grave, psicosi d’innesto in cerebropatia.

Parlo. Parlo con gli anziani, la mia lingua, fatta di “…posso?” e “…disturbo se…”, fatta di contatto di mani, di sguardi e di ascolto.
Non mi sottraggo mai ai loro stimoli, tranne quando li sento diventare maniacali: la risposta di fronte alle continue repliche è dolce ma ferma; questo sembra tranquillizzarli.

In una delle mie visite d’osservazione, un’anziana mi ricanta una canzone, come la prima volta che m’ha incontrata di fronte alla mia domanda se le piaceva la musica.
Penso: “…si ricorda”; ma subito mi rendo conto che l’affermazione è un po’ forte rispetto agli elementi che conosco in questo momento; preferisco allora pensare che quello sia un canale di comunicazione con quella persona, a prescindere da me. Di quella donna dicono che la trovarono bambina rinchiusa in casa con il cane, non si seppe da quanto abbandonata dai genitori; si pensa molto tempo perchè non era più in grado di parlare, si esprimeva con l’unico linguaggio a disposizione: abbaiava.

E oggi, che le nuvole si fanno scure in cielo, al reparto Madonna della Salute (invocabile a gran voce oggi) avverto nell’aria una tensione tagliente come un cristallo già infranto pronto a ferirmi, e non oso nulla, sto seduta con la signora di Firenze e la sua immancabile borsetta, scambio qualche battuta di spiegazione con il personale paramedico.

Un uomo è seduto a terra in mezzo alla sala, lentamente si lascia scivolare completamente nella totale indifferenza degli altri anziani; interviene un ausiliario che lo aiuta convincendolo e sorreggendolo nel rialzarsi.

L’anziana seduta alla mia destra è infastidita dalla mia presenza.
Lo dice chiaramente con il corpo, il silenzio e lo sguardo, che non mi dona neppure per un secondo.

Tra l’infermiera e un ausiliaria si sviluppa un giallo: urina sul pavimento con anziana asciutta, come verifica al volo l’ausiliario sollevando le gonne alla donna in questione.

La realtà qui presenta il suo lato crudo, si tratta di trovare il condimento adeguato per digerirla.
Questi aspetti non cancellano  il fatto che mentre parlavo con un ausiliaria, presentandomi, un’anziana sia venuta verso di me e con gesti materni mi abbia fatta sedere, mi abbia carezzato la testa, e spostandomi i capelli dalla fronte, mi abbia dato un bacio con una semplicità e intensità che nessuna parola può eguagliare.

Comincio ad acquisire sicurezza; prima di premere il bottone apriporta (quasi  tutti i reparti hanno porte chiuse con combinazione per l’apertura), soffio forte; poi entro: la mia borsa con il lettore cd, la mia borsa con tutti i materiali di danzaterapia, la mia musica e anche il mio coraggio.

Saluto tutti a gran voce , anche per chi non vuol partecipare voglio essere una presenza, uno stimolo.

“Porto la musica” dico.
Spengo la televisione, attacco il mio cd, e comincio ad andare a invitare gli anziani che hanno mostrato maggior interesse, sposto i tavoli e organizzo un cerchio di sedie.

Qui sotto lo sguardo perplesso degli infermieri che passano svolgendo l’ineluttabile “vita naturale del reparto” (distribuire terapie, prelievi, calze  etc.), metto in relazione gli anziani con l’esercizio dell’elastico; prima con me, poi tra loro che finalmente si guardano, ridono con me e si divertono.

Lascio che sciupino la mia carta crespa con queste vecchie mani inattive da decenni, con  questo corpo  timbrato come persona inutile, sbagliata.
Faccio disegnare loro nell’aria a occhi chiusi la musica, che si spolverino dal corpo la polvere della settimana.

Finalmente, fosse solo per un’ora, si sentano liberi di giocare senza alcun giudizio.

È difficile lavorare in questo reparto, senza un luogo protetto dove gli anziani possano esprimersi liberamente e anch’io possa usare tutti i mezzi necessari a entrare in contatto con loro; ma il lavoro svolto fin qui è importante e cerco di ottenere uno spazio adeguato perchè i semi gettati finora possano decidere liberamente se sbocciare di colpo o dormire un altro inverno.

Voglio accettare questo limite e crescere lavorandoci.

di Anna Borghi