LIBRERIA CREMASCA: Intervista a Edoardo Villata, ospite sabato alla rassegna “Storici dell’arte in Palazzo Vescovile”

Intervistiamo in esclusiva Edoardo Villata, docente di Storia dell’Arte Moderna all’Università Cattolica di Milano. Il professore sabato 27 ottobre 2018 alle ore 16,30 sarà ospite della rassegna “Storici dell’arte in Palazzo Vescovile”, organizzata dalla Libreria Cremasca e parlerà del volume E. Villata, Grünewald. Pittore e mistico tra Lutero e Hindemith, Hapax editore, Torino 2018.

Quale è stato il suo percorso di studi e come è arrivato a occuparsi di storia dell’arte?

La decisione di diventare storico dell’arte l’ho presa a 8 anni, il resto è stata una conseguenza. Ho studiato filosofia all’università di Torino, per poi laurearmi con un grande storico dell’arte come Giovanni Romano, al quale devo la mia formazione di studioso. Come palestra ho avuto il Rinascimento piemontese: la tesi di laurea, e il mio primo libro, sono stati dedicati a Macrino d’Alba. Successivamente ho proseguito gli studi, prima con la specializzazione e poi con il dottorato di ricerca, in Università Cattolica (sono un allievo mancato di Miklòs Boskovits), ampliando il raggio dei miei interessi a Leonardo, alle cui problematiche sono stato introdotto da Pietro Marani, e poi a Gaudenzio Ferrari, argomento del mio dottorato seguito da Maria Luisa Gatti Perer. Ma in Cattolica vorrei ricordare anche la lezione, non solo scientifica ma prima di tutto civile, di Maria Grazia Albertini Ottolenghi. Sono passati pochi anni, ma già si può dire “altri tempi”.

Lei si è occupato prevalentemente di pittura piemontese e lombarda fra Quattro e Cinquecento, come mai uno studio su un pittore tedesco?

Uno studioso può seguire per tutta la propria attività un binario precostituito, arando con regolarità lo stesso terreno: forse dal punto di vista delle carriere accademiche è la scelta migliore. Oppure può considerare la storia dell’arte come il proprio modo di leggere il mondo, e allora le spinte, diciamo così, esistenziali, diventano più urgenti. Sono queste che mi hanno portato, dopo uno studio condotto in silenzio per molti anni, a confrontarmi con due pittori da me amatissimi da sempre e finora non troppo “di moda” nei circoli più trenndy della storia dell’arte, specie milanocentrica: Grünewald, appunto, e Pordenone.

Il tedesco a cui è dedicato il suo ultimo libro è un pittore eccezionale, di cui conosciamo pochi dati biografici. Cominciamo dal nome Matthias Grünewald con cui oggi è comunemente noto, non era il suo vero nome.

Solo nel 1938, grazie allo studioso tedesco Karl Walter Zülch, si è finalmente stabilito che il suo vero nome era Mathis Gothart, ed era originario di Würzburg. Quando si stabilisce alla corte arcivescovile di Magonza aggiunge il cognome Nithart. L’origine del soprannome con cui è universalmente noto, ma che compare solo nel 1675, è ancora oggetto di dibattito.

Cos’altro sappiamo di lui?

Era il pittore di corte dell’arcivescovo di Magonza, la figura religiosa più importante della Germania, oltre che principe elettore. Il suo mecenate, Alberto di Brandeburgo, era un raffinato umanista ma anche colui che dà il via alla campagna di indulgenze (appaltata ai banchieri Fugger che gli avevano concesso un enorme prestito, necessario per ottenere dal papa la dispensa dalla norma che gli avrebbe impedito di aggiungere la cattedra magontina a quelle che già deteneva) che scatenerà la rivolta di Lutero. Con Lutero Alberto ebbe un rapporto ambivalente, sorprendentemente conciliante in alcune circostanze e ferocemente contrario in altre: certo Grünewald visse con la massima drammaticità, e in prima linea, la lacerazione religiosa di quegli anni. La posta in gioco era la più alta: da una parte la Chiesa, o solo il papa e il suo strumento di potere; dall’altra il Vangelo, oppure solo un eresiarca: ci si giocava l’anima. Tra gli oggetti lasciati dal pittore al momento della morte, si troveranno libri di Lutero e di altri teologi a lui vicini, ma anche oggetti di tradizionale devozione come una corona in legno. Morì solo, ad Halle, nel 1528.

Di quante opere ragionevolmente certe si compone il catalogo del pittore?

A oggi se ne contano una dozzina, compreso l’enorme polittico di Isenheim, vanto del Musée d’Unterlinden di Colmar, a cui propongo di aggiungere un magnifico ritratto nel Museo del Castello di Aschaffenburg.

Come mai un numero così esiguo?

Abbiamo notizia, dalle fonti archivistiche e letterarie o da copie antiche, di numerose opere, dipinte a Francoforte e Magonza, andate perdute. Non dobbiamo poi dimenticare che il polittico di Isenheim, da solo, presenta nove dipinti di grandi dimensioni. E soprattutto che Grünewald ebbe in sorte una vita alquanto breve, una quarantina d’anni o poco più, e che gli ultimi due anni, forse in seguito a una crisi spirituale, pare che si sia allontanato dai pennelli. Aggiungiamo anche che le sue opere, tutte di altissima qualità, sembrano di conduzione totalmente autografa, come se non avesse mai avuto una vera bottega, a differenza di colleghi ben più prolifici e commercialmente organizzati come Dürer e Cranach.

Nella prefazione del libro lei dice di aver applicato per questo studio il “metodo storicoartistico italiano”, cosa intende?

Il primato epistemologico della mia ricerca è sempre, dichiaratamente, riconosciuto allo stile, al linguaggio figurativo: questo mi ha portato a riconoscere l’importanza del grande scultore Tilman Riemenschneider per la formazione di Grünewald, a rivedere alcune cronologie di dipinti, ma soprattutto dell’intero corpus di disegni; e anche a ipotizzare un soggiorno in Lombardia. Al contempo, però, ho provato a condurre una ricerca a più ampio raggio di quanto normale nelle monografie recenti sull’artista: è bastato utilizzare fonti edite ma un poco dimenticate, perlomeno dagli specialisti grünewaldiani, per ricucire alcuni contesti e rafforzare alcune ipotesi scaturite dalla logia stilistica. Sottolineo: rafforzare, non originare.

Lei ipotizza un soggiorno del pittore in Lombardia nel 1516, su quali basi?

Per l’appunto, anzitutto per l’evidenza formale: dopo Isenheim Grünewald evidenzia una crescita dimensionale delle sue figure, accordi cromatici nuovi, il tutto unito a ricordi di opere lombarde (Bramantino, Leonardo, Romanino) e a possibili tracce a sua volta lasciate su altri artisti come Lorenzo Lotto o Amico Aspertini. Tutto questo prima di Isenheim non c’era. Ecco una ipotesi che nasce dalla logica dello stile. Ma se poi guardiamo il registro dei tempi e i documenti noti, ci accorgiamo che il pittore torna a Magonza solo nell’agosto 1516, mentre il polittico di Isenheim sembrerebbe sostanzialmente concluso (forse non proprio del tutto) già l’anno precedente. Un vuoto che sembrerebbe da colmare con il viaggio in Italia, corroborato anche da altri indizi.

Perché sostiene che Grünewald abbia un ruolo fondamentale non solo nella storia dell’arte, ma anche nella mistica occidentale?

Guardiamo la Resurrezione del polittico di Isenheim: chi ha mai non dico dipinto, ma immaginato un Cristo simile? Vestito dei colori dell’iride, le ferite della Passione diventate luminose. Ma soprattutto un corpo d’alabastro, di un bianco purissimo, capace di librarsi nell’aria e di disegnare con le braccia una circonferenza con i colori dell’arcobaleno, che equivale a una nuova creazione. Un corpo totalmente trasfigurato ma concreto, capace ancora di proiettare ombra e quindi tangibile: nessuno aveva mai osato spingersi tanto in là nel raffigurare il corpo glorioso del Risorto; tantopiù nella stessa opera in cui vediamo il terrificante Crocifisso, scheletro in putrefazione, e, proprio a fianco della scena della Resurrezione, il vasino da notte del Bambino Gesù, di cui intravediamo il contenuto. O per contro, quale interprete più profondo ha avuto la cristologia luterana del Grünewald autore della Andata al Calvario e della Crocifissione oggi nel Museo di Karlsruhe?