“L’insidia più grave in questa fase, e sempre più pericolosa con il passare del tempo, è l’assuefazione, la stanchezza. L’abitudine a una guerra che molti sperano rimanga circoscritta alle regioni in cui si sta svolgendo nell’illusione di poter continuare a stare tranquillo. Questo è il pericolo più immediato, perché quando la sensazione di pericolo si dissolve e finisce l’allarme, allora diventa reale il rischio di non accorgersi di ciò che può capitare”. È quanto mette in guardia mons. Mariano Crociata, presidente della Commissione degli episcopati dell’Unione europea (Comece), in questa intervista al Sir, a due anni dall’inizio dell’invasione russa su vasta scala in Ucraina.
A nome dei vescovi europei e in unità con Papa Francesco, il vescovo lancia un appello “ai capi delle nazioni e degli organismi internazionali” perché “ciascuno si mobiliti interiormente e attivi tutte le energie positive dei popoli insieme a quelle delle istituzioni europee”.
Due anni di una guerra che ha seminato morte e distruzione. Con quali occhi l’Europa ha seguito e vissuto questo conflitto?
Un senso di angoscia accompagna inevitabilmente l’inizio e lo sviluppo di questa guerra. Gli intrecci storici, ideologici e psicologici che si trovano alla sua origine sono troppo profondi e complessi per essere afferrati da chi aveva finora (almeno dal 2014) osservato a distanza quelle regioni pur sempre parte dell’Europa, compresa la Russia europea. Sembra di essere di fronte a qualcosa di oscuro e indomabile. Ma anche un senso di sgomento. Ciò che da due anni agita i nostri sonni, ma non meno le nostre veglie, è il ripresentarsi di un fantasma del passato.
È una guerra che per tanti versi replica dinamiche e visione del mondo che sembravano ormai relegati al passato.
E invece è tragicamente presente, attuale e anche minacciosa ben oltre il teatro geografico in cui si svolge la tragedia, che ormai non riesce più a fare la conta dei morti e delle distruzioni che continua a lasciare sul terreno, per non parlare delle immani sofferenze dei superstiti.
Non è un conflitto. Ma una aggressione ad un paese democratico. Gli ucraini chiedono una pace giusta. Come si costruisce una pace giusta?
Questa guerra mostra che alla fine, pur nell’intreccio di molteplici cause, essa è il risultato della decisione di qualcuno, è una scelta. Dobbiamo confidare che tutti gli attori sulla scena, sia quelli che appaiono alla ribalta sia quelli che stanno dietro le quinte o anche sono distanti da essa, siano raggiunti e toccati da argomenti, ragioni, esigenze, inviti che inducano a porre fine alla guerra.
Quale volto debba avere una pace giusta lo abbiamo già detto in tanti, perché non può esserci pace giusta senza rispetto dell’integrità di un Paese sovrano e del diritto internazionale.
Come essa si debba costruire è questione di tutt’altra portata e difficoltà, che va lasciata ai molti che hanno potere e influenza nei rapporti nazionali e internazionali. Non per questo va però ignorato il potere dell’opinione motivata, della parola appropriata, del dibattito pubblico, dei gesti di solidarietà e delle prese di posizione, non ultimo della preghiera.
L’Ue ha fatto abbastanza?
L’Unione europea fin dall’inizio si è mossa compatta, anche se strada facendo, la compattezza ha mostrato delle crepe. Dobbiamo auspicare che l’iniziativa diplomatica si dispieghi in tutte le direzioni e con tutta l’ampiezza di cui può disporre. Fare la pace, quando non è l’immota pace di morti, richiede una forza maggiore di quella che ci vuole per fare la guerra. Ci vuole una grande determinazione nel perseguire una iniziativa diplomatica per la pace. E la determinazione è proporzionata alla compattezza e all’unità del soggetto che la esprime.
Questa guerra è una prova per l’Unione europea almeno per due ragioni. Per la prova di unità che le chiede e per la minaccia che non molto oscuramente lascia balenare all’orizzonte.