Società Storica Cremasca e Libreria Cremasca. Battaglie Medievali

Incontrare uno degli autori di un libro studiato e amato per sostenere l’esame di storia Medievale, è un’emozione. Aldo Settia (Università di Pavia), ospite di Società Storica Cremasca e Libreria Cremasca, è infatti intervenuto venerdì 14 ottobre, presso le scuderie di Palazzo Terni de’ Gregorj per presentare il libro Battaglie Medievali (Il Mulino, 2020). Introdotto da Matteo Facchi, studioso e titolare della libreria di via Dante, Settia, alle spalle una lunga carriera di docente universitario ma anche di storico e ricercatore – in primis sulle strutture e dinamiche di popolamento dei castelli (e qui noi lo abbiamo “incontrato” in età universitaria) quindi sulla toponomastica, sulle istituzioni ecclesiali, per approdare a uno scientifico approccio all’analisi di guerre e battaglie del Medioevo – è stato intervistato da Simone Caldano (Liguria Medievale).

L’intervento dello studioso

Un chiarimento in apertura della piacevole chiacchierata, seguita da un più che discreto numero di persone, vista anche la proposta: “Il mio interesse per gli aspetti di storia Medievale ha radici profonde, che giungono fino agli anni del Ginnasio. Per quanto concerne lo studio delle guerre e delle battaglie, soprattutto dal punto di vista del comportamento e della psicologia dei soldati, deriva anche dall’avere trascorso 14 anni nell’esercito, aspetto che mi ha indubbiamente segnato.
Voglio ricordare – ha proseguito il relatore cogliendo gli stimoli proposti da Cardano – che tutti i soldati medievali, o almeno la quasi totalità, era analfabeta. Gli studi che li riguardano si basano sui racconti di chi visse la guerra in prima persona e ne riferì oralmente a chi scrisse racconti a riguardo, testimonianze molto rare, perché i sopravvissuti che narravano le vicende con dovizia di particolari furono veramente pochi”.
Ed è necessaria un’attenzione degna dei migliori ricercatori per dare alle stampe un libro come quello redatto da Settia se, ad esempio, un fatto narrato per secoli come la battaglia di Mortara del 12 ottobre del 773, semplicemente non è mai stata combattuta e tutta la narrazione che l’ha tramandata di fatto ha rievocato un evento fasullo. I Franchi non combatterono mai sul campo aperto i Longobardi, da qui la diceria della mancanza di coraggio tra i soldati longobardi e quindi italiani, per tacitare la quale fu inventato, appunto, lo scontro di Mortara. Con rigore storico Settia ha invece indagato le battaglie che si sono effettivamente combattute approfondendo la preparazione, il primo incontro tra schieramenti avversi, il cuore dello scontro e il dopo. Come si preparavano i soldati? Cosa provavano prima di scendere in campo? Come erano attrezzati e cosa accadeva? A queste domande l’autore ha puntualmente risposto: “I soldati, siano stati cavalieri o fanti, si preparavano alla guerra con dei giochi, spesso violenti e che non mancavano di causare caduti, durante i quali usavano armi di legno, comunque pericolose. Si esercitavano con delle pietrate (il carnevale di Ivrea dove si lanciano arance è una lontana eco di questi ‘giochi’). Prima della battatglia numerosi erano i riti religiosi: messe, benedizioni, ‘promesse’ di andare in Paradiso se si fosse combattuto con coraggio (tutti i Crociati, per esempio, avevano questa convinzione). Inoltre prima o anche durante la battaglia i soldati che possedevano un cavallo venivano proclamati seduta stante Cavalieri, al fine che con questo titolo così prestigioso si sentissero spronati a combattere. E ancora il rivolgersi a profezie astrologiche (importate in Occidente dagli arabi attraverso la corte di Federico II), avvalersi di spie – spesso donne – che studiassero i movimenti e le intenzioni del nemico, ma anche la necessità di mostrare un coraggio (che spesso mancava!) con la testa alta, l’aspetto fiero con cui si andava contro il nemico seguendo sia il suono dei tamburi sia la sacra bandiera che per tutta la durata della battaglia doveva rimanere issata. Se i portabandiera l’avessero fatta cadere o persa significava la disfatta dell’esercito e la sconfitta…”.

Combattere a ridosso dei fiumi

Un racconto avvincente che ha portato alla luce aspetti non sempre considerati: Ad esempio perché spesso le battaglie dalle sponde dei fiumi? In realtà tutta questa voglia di combattere non era così presente negli eserciti: un fiume comportava la necessità di trovare un guado, di raggiungere in qualche modo i nemici e se questo non si rivelava possibile o fortemente limitate, ecco che l’unica soluzione era rinviare lo scontro (quindi ritirarsi). A volte bastavano persino dei piccoli corsi d’acqua a impedire che la battaglia si svolgesse… Non trascurabili erano poi aspetti quali la stanchezza di manovrare armi pesanti, di indossare armature gelide d’inverno e roventi d’estate, ma anche la consapevolezza dell’inutilità dello scontro da rimandare a circostanze migliori. Tanti erano i motivi per evitare le battaglie, non semre, ovviamente, furono sufficenti!