La storia di Kseniya
Kseniya faceva l’avvocato. Parla un inglese fluente. La sua era una vita normalissima. Poi sono cominciati gli attacchi aerei e hanno dovuto nascondersi sotto i rifugi sempre più spesso fino a che insieme al marito hanno capito che era meglio lasciare la città verso posti più sicuri. Partita sola in macchina con i tre figli, hanno fatto tappa in Ungheria, poi la fuga in Slovacchia. Arrivati ospiti nel seminario maggiore di Kosice, quello che più colpisce Kseniya è il silenzio e i suoni normali della vita quotidiana. Ma i suoi figli continuano a chiederle: “Quando torniamo a casa?”.
Angelica: “Avevamo tutto. Ora non abbiamo più niente”
“Delle persone – dice – sono state uccise” e quando il sindaco ha invitato la popolazione a lasciare la città, lei con la figlia e la nipotina di 3 anni hanno preso la macchina e sono andate via. Non si è portata via niente. È scappata con quello che aveva addosso.
I mariti sono rimasti e stanno combattendo nelle divisioni locali di difesa.
“In città – racconta Angelica – i soldati entrano nelle case e distruggono tutto. Non c’è più acqua ed elettricità. Ci ho messo 5 giorni per uscire dall’Ucraina. Tornare indietro sarà forse impossibile, non abbiamo più dove andare”. Poi si ferma. Alza il viso, cerca lo sguardo e dice: “Avevamo una vita normale. Avevamo tutto. Ora non abbiamo più niente. Questo significa essere rifugiati. È terribile”.
La macchina solidale al confine slovacco-ucraino
Le storie di Kseniya e Angelica si intrecciano con tante altre qui al confine slovacco-ucraino a Vysne Nemecke. Dalle sbarre del controllo di dogana, esce un lento ma continuo “pellegrinaggio” di persone. Sono praticamente tutte donne e bambini. Si vede qualche anziano, per lo più solo.
Arrivano con poche borse. Passeggini e cani al guinzaglio. Vengono accolte da militari e volontari di Croce Rossa, Caritas, chiesa cattolica locale, Ordine di Malta. Un po’ più in là ci sono le navette che portano all’hotspot di Michalovce, dove possono ottenere i documenti necessari per lo status provvisorio di rifugiato e l’assistenza sanitaria. Tutto avviene con ordine e gentilezza. Le navette caricano e partono di continuo. Ma i cuori sono spezzati e quello che più colpisce è un surreale silenzio.
Volontari, ma anche approfittatori
Quello che sin dall’inizio ha messo in allerta tutti i volontari era la presenza di sciacalli e approfittatori sul posto.
“Andavo a casa e non riuscivo a chiudere occhio al pensiero che qualcuno potesse entrare nella macchina sbagliata”, ci racconta Miroslav Gieci, responsabile di turno dei volontari dell’Ordine di Malta. Ora la situazione è monitorata. La polizia fa controlli incrociati e capillari e sul campo è stata impiegata anche la guardia di finanza italiana.
Non c’è struttura della chiesa a Kosice che non sia stata coinvolta nella macchina degli aiuti umanitari. Gli ultimi dati rivelano che l’arcidiocesi ha dato la possibilità di un vitto e alloggio breve o a più lungo termine a 2.550 persone dall’Ucraina.
Il centro di Vysoká nad Uhom
La Domcek Anna Kolesavora di Vysoká nad Uhom è un centro costituito da 4 case, tutte ristrutturate e ben curate. Ogni anno è meta di almeno 5/8 mila giovani che arrivano qui per esercizi spirituali e incontri. Alcuni rimangono per un anno di volontariato.
“Ci siamo messo in contatto con il sindaco e abbiamo cominciato a pulire la struttura e a cercare posti letto – racconta don Pavol Hudak –. La sera stessa tutto era pronto e quella notte sono arrivati da noi i primi 38 bambini con le loro mamme”.
In tutto sono passati da qui più di 400 persone. Ora la struttura accoglie i volontari che prestano servizio al confine. Le donne quando arrivano sono stanchissime. Chiedono solo di poter dormire e mangiare. Hanno guidato la macchina per lunghi tragitti e sono disorientate. Per questo nella struttura si possono trovare ovunque mappe geografiche che permettono ai volontari di indicare dove sono e quale strada prendere per proseguire il viaggio.
Le donne ucraine non smettono di lottare
“Abbiamo visto mamme tirare le carrozzine con una mano e con l’altra tenere in braccio un bambino”, dice il sacerdote. “Abbiamo visto mariti tornare indietro e donne piangere per ore nelle stanze”.
Il richiamo della vita è stato più forte di ogni resa, di ogni lacrima. Una mamma con due bambini ci ha detto: “Quando eravamo sotto nei rifugi, senza più cibo e acqua, abbiamo capito che era meglio rischiare la vita e uscire che morire di fame nei bunker”.
Le donne ucraine sono così, trattengono le lacrime ma non smettono di lottare.