Domenica 30 agosto – “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mt 16, 21-27)

diocesi di Crema
Foto di repertorio

Dal Vangelo secondo Matteo 16, 21-27

Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso

In quel tempo, Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno.
Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!». Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà.
Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita?
Perché il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni».

Il commento

Ecco qua: l’investitura papale di Pietro è ancora fresca, e già il capo degli apostoli si vede severamente rimbottato dal Signore. Un aneddoto consolante, che ci mostra come i doni e la chiamata di Dio non si fanno spazio in noi facendo piazza pulita della nostra povera umanità, ma la elevano sopportando e supportando il nostro limite.
Cosa è successo, esattamente, a Simon Pietro?
Credo che possa aiutarci a comprenderlo un brano di un poema di Peter Handke, Canto alla durata, vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 2019: l’autore descrive una bellissima giornata di mare con due suoi amici, e la sinfonia di colori e sapori e rievocazioni che la situazione offriva loro estasiandoli…

Ma la mia commozione e la mia gratitudine
non erano pure:
erano turbate da un’angoscia,
da una malinconia e da un dolore
che mi impietrivano.
Mi sembrava di essere fuori dal mondo,
scacciato per sempre,
come se con questi attimi avessi perduto
il diritto di essere in vita. […]
No, quel giorno provando tutto questo capivo
che al miracolo mancava la durata.
Ero riuscito sì a fermare l’attimo,
ma nemmeno così
avevo qualche diritto su di lui.

Proprio tutta la bellezza sperimentata rende amara l’esperienza, perché l’autore si rende conto che quella gioia non la potrà conservare, non la potrà fermare per appropriarsene.
Pietro vuole fermare l’attimo, rimanere per sempre in quel momento di trionfo, di speranza vittoriosa, di fecondità promessa, che l’investitura ricevuta, e ancor prima il reciproco riconoscimento con il Signore (“Tu sei il Cristo”, “E tu sei Pietro”) gli avevano donato. Povero Pietro, ci riproverà sul Tabor: “Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè, e una per Elia” (Mt 17, 4).
È interessante notare che “né carne né sangue” avevano indicato a Simone che quello che aveva davanti era il Cristo (cfr. Mt 16, 17); il Padre “che è nei Cieli” aveva ispirato Simone a sbilanciarsi facendo un’affermazione del tutto compromettente riconoscendo la messianicità di Gesù. Ora invece Pietro si appoggia alla sua carne, pensa “secondo gli uomini” (cfr. v.23) e sbaglia; con l’intenzione di non sciupare una gioia, si pone come ostacolo tentatorio rispetto al cammino di Gesù. La carne e il sangue lo inducono a salvare un assetto raggiunto, un equilibrio, a salvarsi la psiche, termine letterale che poi è stato tradotto con “vita”, ma che corrisponde per l’esattezza alla vita che vive nella nostra testa, in reazione all’ambiente e ai suoi traumi.
Gesù lo ammonisce: chi vuole salvare il proprio assetto, le sicurezze raggiunte, le perderà, perché consumerà tutta la sua vita nel tentativo di conservarle, di tenerle al sicuro, come il poeta citato sopra, che si amareggia quando prova a salvare l’esperienza che sta vivendo.
Provare a trattenere la gioia che arriva è il modo più sicuro per perderla – e infatti poi Gesù, con un rovesciamento logico coerente con l’accezione di psiche che abbiamo proposto, ricorda che anche guadagnare il mondo intero (il massimo delle sicurezze!) non solo non protegge da, ma addirittura causa, la distruzione di questa serenità che si brama.
L’alternativa per Cristo è chiara: continuare a rimanere sbilanciati, protesi in un rapporto che non garantisce né tranquillità né trionfi. Solo in questa radicale povertà, che è la rinuncia ai propri equilibri raggiunti, Dio potrà tornare a sorprenderci con la gioia.
In effetti, non è forse questa sorpresa mai scontata che rende tale una gioia autentica?

Alessandro Di Medio