EDUCAZIONE SANITARIA – Il tutto nel cammino della vita: il grande salto

Ospedale
Tanti anni fa veniamo informati che a breve sarebbe nato un bambino gravemente malformato con prospettive di vita limitatissime. Che fare? Intervenire rianimando e sostenendo o astenersi e lasciarlo andare? Ci confrontiamo con i nostri colleghi universitari, ma senza arrivare a una chiarezza. La decisione è nostra. L’essere medico ci impone di perseguire la vita, ma quale vita? Per quanto tempo? Con che qualità? L’argomento è così delicato e profondo che mette in evidenza i limiti e i pregiudizi di ciascuno; discutiamo, ci scontriamo e ci arrabbiamo. Alla fine prevale l’opinione di lasciarlo andare e di assecondare il suo destino. Il nostro intervento procurerebbe solo un inutile ulteriore dolore. Dopo il parto lo lasceremo tra le braccia della madre e attenderemo senza nulla fare. Il consulente legale dell’ospedale afferma che la decisione è così grave da necessitare l’acquisizione del consenso informato dei genitori, per questo stende una comunicazione scritta, molto complessa, da far firmare al fine di tutelare la nostra azione preservandoci da eventuali futuri contenziosi.
Tocca a me dire, spiegare e far firmare le carte. Sono di cultura differente. Sanno già che c’è un problema grande. Dar loro il modulo da leggere o leggerlo io non è comunicare; devo spiegare si, ma come e con quali parole? Cerco nella mia mente le frasi più opportune, tento di semplificare i concetti e renderli più comprensibili. Ma non ci riesco, tutto è così lontano dalla realtà che ho di fronte. Non ci sono parole qui! Mi sovviene, improvvisamente e da lontano, la locuzione latina rem tene verba sequentur (possiedi nella mente l’evento e le parole verranno da sole). Devo passare dal rem tene. Devo essere nell’evento. Devo essere con loro. Devo essere un po’ loro. Niente ruolo, niente barriere, niente parole morte. Mi tocca e devo lasciarmi toccare, solo così le parole saranno un po’ vive.
Nella camera dico stando attaccato a questo sentire, per tener lontano il tecnicismo col quale frequentemente il medico sfugge e si nasconde da quel che ha davanti. Loro ascoltano senza interrompere.
Quando smetto di parlare, si instaura un silenzio denso per un tempo che mi è parso lunghissimo. I nostri occhi si incrociano, il loro sguardo vede la mia anima, il mio un poco la loro. Dal profondo emergono le parole della madre: “Dio mi ha dato questo figlio per il tempo che lui vorrà, è la sua volontà. A me chiede di accompagnarlo, di non lasciarlo solo in questo tempo. Così farò”. Sono colpito e mi zittisco, istintivamente stringo le carte che ho in mano e non posso far altro che ringraziare.
In reparto mi chiedono se ho fatto firmare; in modo asciutto e conclusivo rispondo che non c’è nessuna firma, ma mi assumo ogni responsabilità. Ancora adesso sento la vita delle parole che mi sono state regalate, indicano che il mio passaggio nel mondo è assieme a un Tutto, è partecipazione di un Tutto. Parole che interrogano perché io, noi come società e cultura, nei fatti ci riteniamo il Tutto e, ormai, inseguiamo solo i nostri bisogni diventando sempre più soli e desolati man mano che la Vita inesorabilmente scorre. Dovremmo imparare a partecipare e tener conto del Tutto, sperimentare e perseguire questo come valore perché perdersi e sciogliersi nel Tutto sarà il grande salto finale di tutti.
EMILIO CANIDIO
Direttore dell’Unità operativa di Pediatria