Poeti dialettali cremaschi/3. Federico Pesadori

Federico Pesadori e una cartolina con Il Torrazzo da lui firmata

Ci soffermiamo oggi su colui che, pur non essendone il capostipite, rappresenta certamente un pilastro fondamentale della locale poesia in vernacolo: il notaio Federico Pesadori. La sua produzione poetica è decisamente ampia e tratta in modo sensibile, arguto, in qualche modo dolce, i temi cari alla borghesia dell’epoca: la propria terra, la famiglia, gli amici, la natura.

La vita

Figlio d’arte (il padre, Ranunzio, era un noto tenore), Federico nacque a Vergonzana il 3 febbraio 1849. Dimostrò fin da subito una certa predilezione per l’arte in generale, eccellendo nella musica (suonava il pianoforte in maniera egregia) e nel disegno, dove si specializzò nella realizzazione di simpatiche caricature, mettendo in luce fin da ragazzino la sua sottile ironia. Terminati gli studi presso l’Università di Padova, dove si laureò in Diritto, iniziò il praticantato da notaio (professione che non amò mai fino in fondo) presso lo studio del notaio Lantieri, del quale sposò la figlia, Amina, ereditando in seguito la professione del padre. Federico e Amina ebbero quattro figli, due dei quali morirono di tifo ancor bambini. A Bruno, unico maschio e uno dei due bimbi defunti, il poeta dedicò versi struggenti.

La vita del poeta si svolse tutta tra Crema e il “Castello di Ricengo, dove la famiglia possedeva una cascina e alcuni poderi, che gli consentivano di trascorrere quell’esistenza tranquilla e bucolica che tanto amava.

Proprio a Crema, amata patria, il poeta riserva alcuni dei suoi versi più belli nella celebre poesia “A Crèma”, interamente dedicata alla città, alla sua storia e ai posti più cari al poeta, come la casa dei genitori, con i nidi di rondine sotto il tetto (ne pubblichiamo una delle edizioni).

A CRÈMA

O cara Crèma, la me Crèma cara,
col Sère co la sò bèl’acqua ciara,
ma pias i cios, i prat, le stradeline
doe che canta i rosgos, le speransine.

Che i munt luntá, i campaníi, le tère
che sa spècia col cül an sö ‘n dal Sère,
síi po s’ciarát dal sul o da la lüna
i ciama ‘n penser car o ‘na pèrsuna.

Per quèst ga oi bé a la casa di meì vècc,
ai ní da le rundane sota ‘l tècc;
m’è car al cradegú da la me nona
an doe la recitáa la so curuna,

e che per töcc i so neot, neudí
la gh’ia sempre ‘n sacòcia i sücherí.
Ché ma par fin da séntem a ciamà,
da vèt amó me mama e me pupà;

 ché sente amó la vus di me s’ciatì,
i brasse sö, ga dó di gran basí.
Le par ròbe da mat, ma töte ‘nsèma
le ma tègn ché, ligàt a la me Crèma;

 ché o mèzz ai cios, ai prat, le stradeline
doe che canta i rosgos, le speransine,
sensa sperá ‘n unur, an’atensiú
a spetá ‘l dé da mor cumè ‘n cuiú.

…………….

 Pör se da Crèma argü vurà sparlá…
‘l gh’aará a che fa con me,
‘l gh’aará a che fa.

Il fato volle che il poeta morisse l’8 aprile 1923 lontano dalla sua amata città, segnatamente a Bolzano, dove si era recato in visita a una delle figlie e in particolare all’adorata nipotina Bruna.

Una produzione notevole

Pesadori ci ha lasciato una produzione di spessore, sia quantitativo che qualitativo, che egli stesso aveva deciso di pubblicare in due momenti successivi, “L’Eco della Patria lontana” nel 1875 e “Cremascalia rimata” nel 1905.

La sua produzione è densa di sentimento, vita, calore umano, che si sprigionano nelle varie declinazioni dei suoi ispirati componimenti. Quelli dedicati agli affetti familiari, come “L’ucarina”, o “I me s’ciatèi”, sono intrisi di tristezza e rimpianti, dandoci la misura della sensibilità del poeta. Le poesie dedicate ai personaggi iconici, le cosiddette macchiette, così come quelle scritte in occasione di eventi particolarmente buffi e divertenti, sono permeate invece di arguzia, satira e ironia.

Componimenti dedicati alla natura e all’incedere delle stagioni (“Aötön”, “Cumè saéte…”, ecc.) e poesie ispirate da sentiti problemi sociali (“Al pore Paol”, “Pore crònech” ecc.) arricchiscono la produzione del Pesadori di versi commossi e commoventi, toccanti, profondi.

Infine, naturalmente, i componimenti dedicati all’amata Crema e ai cremaschi, a cui spesso il poeta, nel corso delle riunioni o dei banchetti a cui partecipava, aveva recitato i propri versi anche dal vivo

Persino nel corso della sua professione di notaio, non certo ispirante, era facile trovare, a chiosa di un atto, qualche verso in dialetto che desse un tocco di spontaneità e vivacità a un documento altrimenti freddo e impersonale.

Il dialetto cremasco era, infatti, per Pesadori, la lingua della sua gente, la rappresentazione dello spirito dei cremaschi, che i parla bröt ma i gh’a ‘n sincer parlá (dalla poesia “Commiato”, dedicata all’amico Rossi).