Dal Vangelo secondo Matteo 23,1-12
In quel tempo, Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo:
«Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito.
Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattèri e allungano le frange; si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati “rabbì” dalla gente.
Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo.
Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato».
Don Gianfranco commenta il Vangelo
Nel contesto polemico degli ultimi giorni di Gesù a Gerusalemme, l’imputato del processo effettivo (prima di quello formale) capovolge il verdetto rivolgendo delle critiche dure e pungenti ai suoi giudici (gli scribi e i farisei di ogni tempo) perché se ne prenda la distanza. La denuncia rovente della falsa religiosità evidenzia innanzitutto l’incoerenza tra il dire e il fare. Tanto essi sono abili nell’insegnare quanto nel non mettere in pratica ciò che impongono agli altri. Ciò che tu sei grida così forte da coprire quello che tu dici.
Rifacendosi alla predica muta, un episodio dei Fioretti (S. Francesco), il Papa ama dire: prima fate e poi se necessario insegnate, sull’esempio di Gesù. La gente crede più ai fatti che alle parole e se crede alle parole è perché sono precedute dai fatti. L’incoerenza dell’autorità (religiosa, politica, educativa) non può comunque essere accampata come una scusa per non fare le cose giuste che dice.
L’esperienza salutare della Chiesa attuale
Gesù rincara la dose assommando poi l’ipocrisia di chi impone doveri morali insopportabilmente pesanti che creano falsi sensi di colpa mentre lui è il primo a non assumerli. Più si è rigidi e inflessibili più ci si sente fedeli e giusti. L’ipocrita (attore di teatro) cerca di apparire migliore rispetto a quello che, in realtà, è. Incominciamo a sostituire il “voi” con il “noi”: non voi peccatori, ma noi peccatori. E quanto più uno pensa che lo siano gli altri, mentre lui si ritiene migliore, e tanto più lo è lui.
Il difetto contrario consiste nell’accarezzare la pancia della gente e dire solo cose che rendono il cristiano moderno gradito piuttosto di annunciare il Vangelo integrale nelle sue provocanti esigenze. La doppia vita rende questi credenti poco credibili. Invece l’autorevolezza, basata sul buon esempio, trascina al bene oltre che liberare da pesi inutili e sostenere chi fatica nella sua debolezza a perseguire l’ideale.
Un difetto particolarmente difficile da estirpare è infine la vanità: il culto della propria immagine. Il superbo qualsiasi cosa fa, la compie non per la gloria di Dio ma per l’amor proprio e la sua vanagloria. Sfrutta la sua posizione per primeggiare e mettersi in mostra. Questo giudizio severo di Cristo non è fatto per demolire, ma è un’esperienza salutare anche per la Chiesa attuale, tentata di comportamenti mondani: scopre la piaga per guarirla. La consapevolezza dei nostri limiti ci rende infatti modesti e in stato di continua conversione per diventare testimoni trasparenti di Gesù, mite e umile di cuore (cfr Matteo 11,28).
La fraternità
Dopo la denuncia tagliente dei difetti, Gesù esorta positivamente i suoi discepoli a fare proprie due consegne stupefacenti per essere autentici. Riserviamo solo a Gesù il termine “rivoluzionario” (M. Cacciari). Non ci sono né maestri né padri sulla terra perché uno solo è il Padre, quello del cielo, e voi siete tutti fratelli, dal Papa al bambino più piccolo. Questa fraternità fonda l’uguale dignità, prima di ogni differenza, tra chi sta in alto sulla cattedra e chi si trova in basso nei banchi.
Anche nella Chiesa purtroppo c’è la corsa ai posti prestigiosi e ai titoli onorifici: la piaga del carrierismo (cfr A. Rosmini). Il vero discepolo, invece di cercare il potere, per guardare con superiorità gli altri dall’alto in basso, si accontenta dell’ultimo posto che nessuno invidia. E questo fa certamente non per sentirsi dire bravo come fa la falsa modestia.
Non l’amore del potere, ma il potere dell’amore. Fratelli tutti è la lettera enciclica che papa Francesco ci ha donato per riscoprire la profezia della fraternità, aperta a ogni persona senza preclusioni, in un mondo dilaniato da guerre, tensioni e contrapposizioni tra razze, culture, religioni diverse. Fin dall’inizio le prime comunità apostoliche, in una società divisa in classi sociali, hanno cercato di tradurre in pratica l’ideale mettendo sorprendentemente accanto agli schiavi i loro padroni. Dai monaci del deserto ai grandi ordini religiosi (benedettini, francescani, domenicani) è fiorita poi, nei secoli, una innumerevole sequela di esperienze comunitarie affascinanti.
Da Antonio a Benedetto, da Francesco d’Assisi fino a Charles de Foucauld abbiamo figure luminose capaci non solo di rinnovare il tessuto comunitario delle parrocchie, ma anche di promuovere la cultura dell’incontro attraverso il dialogo e l’amicizia.
Fare grandi i piccoli
Ma la novità che Gesù porta non si ferma all’uguaglianza sociale. C’è un secondo capovolgimento: il più grande per noi è chi si fa servire mentre per il Signore “il più grande tra voi sia vostro servo”. Servo è la più bella definizione che Gesù ha dato di se stesso: “Io sono in mezzo a voi come colui che serve”. E ce ne ha offerto una prova quando si è abbassato per lavare i piedi agli apostoli (cfr Giovanni 13,1-20).
Se abbiamo ricevuto delle qualità e quindi il potere non dobbiamo usarlo per farne orgogliosa ostentazione, dominare sugli altri e perseguire i nostri interessi, ma per servire i bisognosi e fare grandi i piccoli. Chi non vive per servire non serve per vivere (don Tonino Bello).
L’atteggiamento esemplare di Paolo nell’esercitare l’autorità apostolica non è solo fraterno, ma anche materno, cioè tenero e generoso. Se la Chiesa fosse una comunità fraterna in cui le relazioni si qualificano per l’umiltà e il servizio, anche chi si è allontanato scandalizzato dalla nostra contro testimonianza, ritornerebbe.