Domenica 23 luglio. Don Gabriele commenta il Vangelo: “Essere cuore accogliente del buon seme che compie in noi le meraviglie del Regno”

Vangelo commento
Don Gabriele Frassi

Dal Vangelo secondo Matteo 13, 24-30 (forma breve)

In quel tempo, Gesù espose alla folla un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?”. Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”. E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. “No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponètelo nel mio granaio”».

Il commento al Vangelo: 

Pensando a Gesù, che pronuncia questa parabola alla gente accorsa ad ascoltare la sua parola, viene subito da pensare come la sua preoccupazione sia quella di affrontare con delicatezza e nel contempo con determinazione ciò che riguarda la compresenza del bene e del male mentre è in atto l’annuncio e la realizzazione del Regno nella storia dell’uomo.
Colpisce inoltre le contrapposizioni che caratterizzano la narrazione: buon seme e zizzania, padrone e nemico e, in ultima analisi, il bene e il male.
La particolarità inoltre della parabola è messa in evidenza dal duplice confronto dal padrone con i suoi servi: in prima battuta il richiamo alla buona semina e all’intervento del nemico e, subito dopo, la proposta di sradicare l’erba infestante e la risposta che rimanda all’attesa paziente del momento del raccolto.

La lotta spirituale 

I due dialoghi appartengono allo stile letterario del contrasto ed evidenziano prima l’oggetto della questione e poi della modalità con cui prenderlo in considerazione.
Come già detto, Gesù ha a cuore il difficile compito della persona nell’affrontare la polarità tra bene e male e, consequenzialmente offre una modalità nell’affrontarla che sovverte la concezione della tradizione ebraica. Quest’ultima tendenzialmente rimanda a distruggere, ad annientare il male, mentre Cristo introduce le categorie dell’attesa, della pazienza e soprattutto di un sano discernimento inerente la rilettura del divenire dell’uomo. Si affronta così con sapienza la scoperta e l’accoglienza del bene e insieme si riconosce il male per poterlo poi affrontare.
Rileggendo il brano sul piano tipicamente personale si potrebbe dire che il Signore, con il suo linguaggio così plastico e descrittivo, metta in luce quello che nella spiritualità cristiana viene comunemente denominata come lotta spirituale.
Se infatti il terreno della parabola è riconducibile al cuore dell’uomo, è evidente che questa compresenza tra seme buono ed erba infestante, tra bene e male si colloca nell’interiorità stessa della persona così significativamente espressa dall’apostolo Paolo nella lettera ai Romani: “In me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio”.

Vivere il bene

È il dramma della persona umana che, con sano realismo, riconosce questo desiderio di bene che orienta alla gioia interiore e parimenti si rende conto della pesantezza del male insito nella sua interiorità che la induce ad assumere forme comportamentali contradditorie.
Scriveva Origene, un padre della Chiesa del III secolo: “Tu devi lottare in te stesso… perché il tuo nemico procede dal tuo cuore. Non sono io a dirlo, ma Cristo. Ascoltalo: «Dal cuore provengono i pensieri malvagi, gli omicidi, gli adultèri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie»”.
È faticoso riconoscere il male che è in noi poiché questa azione porta a sperimentare il fallimento, l’incompiutezza, la consapevolezza di non essere invincibili e perfetti. Ecco perché spesso lo si minimizza o, ancor più, lo si giustifica in sterili razionalizzazioni.
Proprio per questo Cristo attua gli incontri più significativi là dove la persona non si può nascondere e palesa la coscienza della sua fragilità. Il momento drammatico di solitudine che si viene a creare tra Gesù e l’adultera è emblematico: è la persona che finalmente davanti al suo Signore diviene consapevole della sua debolezza, della sua insicurezza e si abbandona alla possibilità che comunque le viene data di vivere e attuare il bene: “Neppure io ti condanno, va e non peccare più”.
Un perdono, una carezza misericordiosa che però responsabilizza e sprona a vivere il bene: essere cuore accogliente del buon seme che compie in noi le meraviglie del Regno.