Nel 2013 l’Italia ha ratificato l’accordo del Consiglio d’Europa, denominato Convenzione di Istanbul, in cui nel preambolo si riconosce che “la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi… riconosce la natura strutturale della violenza contro le donne… la violenza sulle donne è una violazione dei diritti umani… condanna ogni forma di violenza sulla donna e la violenza domestica…”.
I Paesi che hanno aderito dovrebbero secondo le cosiddette 4 P “esercitare la dovuta diligenza nel prevenire la violenza, proteggere le vittime, perseguire i colpevoli, utilizzare politiche integrate”.
Senza entrare nel merito della Convenzione già nelle dichiarazioni si può notare che questo accordo rappresenta una grande conquista di civiltà perché finalmente si riconosce che un genere non può prevaricare l’altro né con le leggi né con una cultura patriarcale ormai inadeguata.
Ma l’Italia è pronta per questa nuova stagione? Sembrerebbe di no. L’Italia ha leggi abbastanza avanzate, ma il grosso problema è la cultura maschilista che, come dice nella sua relazione Grevio (2020), la commissione che vigila sull’applicazione della Convenzione troppo spesso fa leggere “la violenza come conflitto tra le parti”, non c’è “valutazione del rischio” ed è associata a “mancanza di una formazione adeguata”.
In pratica, in accordo coi risultati di una inchiesta sulla violenza di genere svolta dal Consiglio Superiore della Magistratura (2021), nell’applicazione della Convenzione si sono focalizzate numerose criticità tra cui la più significativa sembra essere la mancata specializzazione degli operatori. L’Italia ha già ricevuto moniti dai giudici della Corte Europea dei diritti dell’uomo.
Emblematico il caso Talpis. E.T, sposata con 2 figli, ha un marito violento e spesso ubriaco, che picchia sia lei che la figlia, le minaccia con un coltello, più volte devono intervenire i Carabinieri. Lo denuncia. Riesce a scappare. Si rifugia presso un Centro antiviolenza. Scaduti i termini del ricovero, cambia città, trova lavoro, ma viene ancora perseguitata.
Altra denuncia per lesioni, maltrattamenti e minacce, chiede protezione per sé e per i figli.
La denuncia viene archiviata. Finché accade ciò che era prevedibile. Di fronte all’ennesima aggressione, il figlio di 19 anni interviene per proteggere la madre e viene ucciso dal padre.
Finalmente per quell’uomo si aprono le porte della prigione, ma a quale prezzo?
Il caso non è isolato. I due figli di E. Patti sono stati uccisi dal padre che, nonostante le 10 denunce della donna per minacce e maltrattamenti, aveva diritto di incontrarli senza nessuna limitazione della responsabilità genitoriale.
E ancora. Il caso di A. Penati che, in seguito all’uccisione del figlio da parte del padre durante un incontro protetto, fonda l’associazione “Federico nel cuore”, impegnata a denunciare le inefficienze del sistema di tutela delle vittime di violenza familiare.
E ancora nel 2022, l’Italia è condannata da Strasburgo per non aver tutelato una donna e il suo bambino di un anno, ucciso dal padre, ripetutamente denunciato per maltrattamenti.
Nella sentenza per la prima volta viene fatto riferimento alla mancata applicazione dell’ordine di protezione “per l’evidente confusione tra conflitto e violenza”.
Anche DIRE, la nostra rete nazionale, ha rilevato le stesse criticità e ha istituito un Osservatorio nazionale sulla vittimizzazione secondaria, consapevoli che le operatrici dei centri sono testimoni privilegiate dei racconti che le donne fanno sugli ostacoli che incontrano nei percorsi di uscita dalla violenza.
Noi di Crema abbiamo aderito già nel luglio 2022 all’indagine qualitativa esplorativa attivata presso 37 CAV, prodromica all’indagine quantitativa che coinvolgerà a breve tutti i Centri di DIRE.
Paola Strada
Associazione Donne contro la Violenza