“Da tanto coltivavo il desiderio di incontrarvi; per questo oggi vorrei ringraziare il Signore”. E’ il saluto del Papa ai vescovi, sacerdoti, diaconi, consacrati e consacrate e seminaristi, incontrati nella cattedrale di Santa Teresa a Giuba, nel secondo giorno in Sud Sudan.
La metafora del Nilo
Dopo aver ricordato i momenti che hanno preceduto il viaggio – la celebrazione a San Pietro nel 2017 per il dono della pace e il ritiro spirituale del 2019 con i leader politici – Francesco ha ripreso la metafora del Nilo, già usata nel suo primo discorso di ieri rivolto alle autorità: “Le acque del grande fiume raccolgono i gemiti sofferenti delle vostre comunità, il grido di dolore di tante vite spezzate, il dramma di un popolo in fuga, l’afflizione del cuore delle donne e la paura impressa negli occhi dei bambini. Allo stesso tempo, però, le acque del grande fiume ci riportano alla storia di Mosè e, perciò, sono segno di liberazione e di salvezza: da quelle acque, infatti, Mosè è stato salvato e, conducendo i suoi in mezzo al Mar Rosso, è diventato strumento di liberazione”. “Guardando alla storia di Mosè, che ha guidato il Popolo di Dio attraverso il deserto, chiediamoci che cosa significa essere ministri di Dio in una storia attraversata dalla guerra, dall’odio, dalla violenza, dalla povertà”, l’invito.
Pastori compassionevoli, no padroni del popolo
“Davanti al Buon Pastore, comprendiamo che non siamo capi tribù, ma pastori compassionevoli e misericordiosi; non padroni del popolo, ma servi che si chinano a lavare i piedi dei fratelli e delle sorelle; non un’organizzazione mondana che amministra beni terreni, ma la comunità dei figli di Dio” ha proseguito il Papa, attualizzando poi l’episodio biblico di Mosé e del roveto ardente.
L’errore iniziale di Mosé, ha spiegato, era stato quello di “pensare di essere lui il centro, contando solo sulle sue forze. Ma così era rimasto prigioniero dei peggiori metodi umani, come quello di rispondere alla violenza con la violenza”.
“A volte qualcosa di simile può capitare anche nella nostra vita di sacerdoti, diaconi, religiosi e seminaristi”, ha commentato: “Sotto sotto pensiamo di essere noi il centro, di poterci affidare, se non in teoria almeno in pratica, quasi esclusivamente alla nostra bravura; o, come Chiesa, di trovare la risposta alle sofferenze e ai bisogni del popolo attraverso strumenti umani, come il denaro, la furbizia, il potere. Invece, la nostra opera viene da Dio: lui è il Signore e noi siamo chiamati a essere docili strumenti nelle sue mani”.
Il compito dei religiosi e l’esempio di san Daniele Comboni
“Sostenere con la preghiera davanti a Dio le lotte del popolo, attirare il perdono, amministrare la riconciliazione come canali della misericordia di Dio che rimette i peccati: è il nostro compito di intercessori!” ha esclamato il Papa, citando la “pazienza” di Mosé e la sua “lotta con Dio perché non abbandoni Israele”.
“Essere profeti, accompagnatori, intercessori, mostrare con la vita il mistero della vicinanza di Dio al suo popolo può richiedere la vita stessa”, ha osservato il Papa: “Tanti sacerdoti, religiose e religiosi sono rimasti vittime di violenze e attentati in cui hanno perso la vita”.
In particolare, Francesco ha citato San Daniele Comboni, “che con i suoi fratelli missionari ha compiuto in questa terra una grande opera di evangelizzazione: egli diceva che il missionario dev’essere disposto a tutto per Cristo e per il Vangelo, e che c’è bisogno di anime ardite e generose che sappiano patire e morire per l’Africa”.
L’omaggio del Papa
“Io vorrei ringraziarvi per quello che fate in mezzo a tante prove e fatiche”, l’omaggio del Papa: “Grazie, a nome della Chiesa intera, per la vostra dedizione, il vostro coraggio, i vostri sacrifici, la vostra pazienza. Vi auguro, cari fratelli e sorelle, di essere sempre pastori e testimoni generosi, armati solo di preghiera e di carità, che docilmente si lasciano sorprendere dalla grazia di Dio e diventano strumenti di salvezza per gli altri; profeti di vicinanza che accompagnano il popolo, intercessori con le braccia alzate”.