Dal Vangelo secondo Matteo 14,13-21
Ma le folle, avendolo saputo, lo seguirono a piedi dalle città. Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, sentì compassione per loro e guarì i loro malati.
Sul far della sera, gli si avvicinarono i discepoli e gli dissero: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare». Ma Gesù disse loro: «Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare». Gli risposero: «Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci!». Ed egli disse: «Portatemeli qui».
E, dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull’erba, prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla.
Tutti mangiarono a sazietà, e portarono via i pezzi avanzati: dodici ceste piene. Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini.
Il commento
Terminata la lunga carrellata delle parabole del regno, la liturgia di questa domenica ci propone il notissimo episodio della moltiplicazione dei pani, il miracolo maggiormente attestato nei vangeli (è riportato ben sei volte!), segno di un evento che ha lasciato un fortissimo ricordo tra i primi credenti. É arduo commentare tale episodio, tante sono le sue sfaccettature, le sue risonanze e i suoi significati. Esso è insieme il gesto di potenza di un profeta di Dio, simile a Elia ed Eliseo, la profezia del banchetto messianico che contraddistinguerà il compimento del regno e un non tanto velato richiamo al banchetto eucaristico che, nel tempo della Chiesa, assumerà un ruolo centrale.
La difficoltà a commentare un episodio così denso di significati mi porta a mettere in evidenza due aspetti, che potrebbero apparire marginali. Il primo è il riferimento iniziale all’anacoresi di Gesù, al suo ritirarsi «in un luogo deserto». Esso da un lato è la reazione a due eventi narrati poco prima, ossia l’uccisione di Giovanni il Battista e il rifiuto espresso nei confronti di Gesù dai compatrioti di Nazareth che «si scandalizzavano di lui» (13,57); dall’altro nasce dal bisogno di solitudine, di intimità con se stesso e con il Padre. Doveva essere frequente questo isolarsi di Gesù, questo raccogliersi in solitudine per pregare (Mc. 1,35). È curioso il richiamo a questo ritirarsi all’inizio di un episodio nel quale Gesù incontra «circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini». E allora Gesù appare come l’uomo che ricercava la solitudine, lo stare con se stesso ma allo stesso tempo sapeva stare con gli altri, non si sottraeva all’assalto delle folle. Nell’episodio si scorge anche la consuetudine di Gesù a fare della consumazione comunitaria dei pasti, della convivialità una prassi da lui prediletta (e per la quale era anche aspramente criticato dai suoi oppositori). Questa capacità di Gesù di tenere insieme dimensioni diverse, apparentemente opposte, ci interpella e ci sollecita.
L’altro aspetto che intendo commentare è l’accenno al sentimento provato da Gesù di fronte alla folla accorrente, ossia la «compassione». I vangeli sono abbastanza reticenti nel riferire in modo esplicito i sentimenti e le emozioni provati dal Maestro. Alcuni di essi possono essere dedotti dai suoi comportamenti e dai suoi atteggiamenti. Diversamente da un’immagine consolidata un po’ irenica e buonista, non sono state estranee a Gesù le arrabbiature, le durezze, le paure, la tristezza e molto altro. Come quando impreca aspramente contro le città che non si sono convertite nonostante i miracoli compiuti in esse (Mt. 11,20-24) o come quando – lo vedremo tra un paio di domeniche – appare particolarmente scontroso e duro nel resistere alla richiesta di guarigione della figlia da parte di una donna cananea. È bene che non appiattiamo la figura di Gesù in un’immagine edulcorata di persona che voleva bene a tutti e che con tutti era buono e gentile. Questa considerazione ci consente di valorizzare maggiormente quello che è stato il suo stile prevalente, ossia l’attenzione, l’ascolto, l’accoglienza, la condivisione, la benevolenza: in una parola, la compassione. Ecco, appunto, quella compassione che muove Gesù a guarire i malati che gli venivano portati e a dare da mangiare alla folla che, per averlo seguito e ascoltato per ore, rischiava di non poterlo fare.
La compassione non è un sentimento/atteggiamento tra gli altri: è tipico del Dio della Bibbia, è ciò che lo caratterizza in maniera specifica. È ciò che prova una madre nei confronti del proprio figlio, è un’emozione profonda, viscerale appunto. È la misericordia. La compassione di Gesù non contiene dunque uno sguardo dall’alto in basso, un generico e superficiale commuoversi: è un immedesimarsi mosso dall’amore. E se la misericordia/compassione è ciò che caratterizza propriamente Dio, non poteva non caratterizzare colui che intendeva annunciarne, con la parola e la vita, il vero volto.
Romano Dasti