Ieri sera il Papa ha guidato la Via Crucis dal sagrato della basilica di San Pietro. 14 meditazioni, scritte dalla comunità del carcere “Due Palazzi” di Padova

Venerdì Santo
Il Papa sul sagrato della basilica di San Pietro, in una piazza deserta, come era avvenuto due settimane fa con la supplica per invocare la fine della pandemia di Covid-19. Nella prima Via Crucis del suo pontificato lontana dal Colosseo Francesco è ancora una volta solo, ma porta con sé tutta la sofferenza del mondo – collegato in mondovisione – e in particolare quella delle vittime della pandemia di Coronavirus, che non fa differenze di colore, etnia, religione o provenienza. Il cammino della Croce intorno all’obelisco fino al centro del sagrato, delimitato dalle delle fiaccole sui sanpietrini, è condotto da due gruppi, di cinque persone ciascuno: quello della Casa di Reclusione “Due Palazzi” di Padova, cui sono affidate le meditazioni, e quello della Direzione Sanità e Igiene del Vaticano. I testi che scandiscono le 14 stazioni, raccolti dal cappellano don Marco Pozza e dalla volontaria Tatiana Mario, sono storie vere scritte in prima persona, ma in forma anonima, in modo che la voce di uno sia la voce di tutti. E la preghiera silenziosa di Francesco, in piedi di fronte al Crocifisso di San Marcello al Corso, nella dodicesima stazione che fa memoria della morte di Gesù, è davvero la preghiera di tutti.

Le lacrime di vittime e carnefici

“Quando, rinchiuso in cella, rileggo le pagine della Passione di Cristo, scoppio nel pianto: dopo ventinove anni di galera non ho ancora perduto la capacità di piangere, di vergognarmi della mia storia passata, del male compiuto”. È la confessione di un ergastolano, che commenta la prima stazione della Via Crucis con accenti molto personali. Come quelli dei due genitori al centro della seconda stazione, che ancora piangono la figlia che gli hanno ammazzato: “Siamo anziani, sempre più indifesi, e siamo vittime del peggiore dolore che esista: sopravvivere alla morte di una figlia”. “È bastato un giorno per passare da una vita irreprensibile a compiere un gesto nel quale è racchiusa la violazione di tutti i comandamenti”, racconta un detenuto nella terza stazione.

Una lama affilata

“Nemmeno per un istante ho provato la tentazione di abbandonare mio figlio di fronte alla sua condanna”. A parlare, nella quarta stazione, è una mamma di un carcerato: “Il giorno dell’arresto tutta la nostra vita è cambiata: l’intera famiglia è entrata in prigione con lui”. “Ancora oggi il giudizio della gente non si placa, è una lama affilata”, la testimonianza dell’oggi: “Mi sono addossata le colpe di mio figlio, ho chiesto perdono anche per le mie responsabilità”. “Simone di Cirene è il mio compagno di cella”, racconta un detenuto nella quinta stazione: “L’ho conosciuto nella prima notte trascorsa in carcere. Era un uomo che aveva vissuto per anni su una panchina, senza affetti né redditi. La sua unica ricchezza era una confezione di brioches. Lui, goloso di dolci, ha insistito perché la portassi a mia moglie la prima volta che è venuta a trovarmi: lei è scoppiata a piangere per quel gesto tanto inaspettato quanto premuroso”. “Come catechista asciugo tante lacrime, lasciandole scorrere: non si possono arginare le piene di cuori straziati”, testimonia una catechista nella sesta stazione.

(Foto Siciliani-Gennari/SIR)

Uno spacciatore e una figlia

Il protagonista, senza nome, della settima stazione è uno spacciatore: “Un giorno sono finito io dietro le sbarre, assieme a mio fratello. Come se non bastasse, ho condotto lì dentro anche mio padre e mia madre. Stanno invecchiando in prigione per colpa mia. In quegli anni non sapevo quello che facevo. Adesso che lo so, con l’aiuto di Dio, sto cercando di ricostruire la mia vita”. Quella dell’ottava stazione è la storia di una figlia il cui padre è stato condannato all’ergastolo: “Da ventotto anni sto scontando la pena di crescere senza padre. Ho attraversato l’Italia da Sud a Nord per stargli accanto: conosco le città non per i loro monumenti ma per le carceri che ho visitato”.

Un nonno in mille pezzi

“In carcere sono diventato nonno: mi sono perso la gravidanza di mia figlia”. Sono piene di rimpianto, le parole di chi ha scritto la nona stazione. “Un giorno, alla mia nipotina, non racconterò il male che ho commesso ma solamente il bene che ho trovato”, assicura l’autore: “È vero che sono andato in mille pezzi, ma la cosa bella è che quei pezzi si possono ancora tutti ricomporre”, il messaggio di speranza. Nella decima stazione, un’educatrice penitenziaria parla di “creature sospese”, la cui vita però può ricominciare in un’altra direzione, voltando definitivamente le spalle al male”.

(Foto Siciliani-Gennari/SIR)

Nessuna scorciatoia

“Non ho mai pensato di accorciare la croce, nemmeno quando la legge me lo concedeva. Ho scelto di sottopormi al giudizio ordinario: lo dovevo a me, ai ragazzi che ho educato negli anni del Seminario, alle loro famiglie”. L’undicesima stazione della Via Crucis dà voce ad un sacerdote condannato ingiustamente e poi assolto dopo dieci anni di reclusione: “Appeso in croce, il mio sacerdozio si è illuminato”.

Seppellire uomini vivi

Nessuno, neanche un magistrato di sorveglianza, può “inchiodare un uomo, qualsiasi uomo, alla sua condanna: vorrebbe dire condannarlo una seconda volta”. Parola del magistrato della dodicesima stazione. “Le persone detenute sono, da sempre, i miei maestri”, confessa nella tredicesima stazione il frate volontario che da sessant’anni incontra persone dietro le sbarre: “Il carcere continua a seppellire uomini vivi”, la denuncia. “Il mio piccolo desiderio è essere un punto di riferimento per chi incontro tra le sbarre”, rivela un’agente di polizia penitenziaria che oltre non si vergogna di esercitare anche il servizio di diacono permanente: “In carcere ricordo loro che, con Dio, nessun peccato avrà mai l’ultima parola”.