Don Angelelli, come “leggere” questo invito?
Gesù è quell’incontro, quella relazione che ci sostiene nel nostro cammino, e l’invito è a tutti i cristiani a diventare missionari nei luoghi di sofferenza e difficoltà per portarvi l’annuncio e la presenza di Gesù e della Chiesa. Questo versetto del Vangelo costituisce una grande opportunità per recuperare la ragione stessa del nostro esistere, segnato dalla fragilità quale condizione antropologica naturale e condivisa. Siamo stati illusi dalla proposta di modelli di superuomini e superdonne in grado di affrontare ogni sfida, in realtà inesistenti perché la fragilità è una condizione esistenziale, e quando essa a causa della malattia si trasforma in vulnerabilità, è arrivato il momento di andare incontro a quella sorgente di sollievo e consolazione che è Gesù. E un’icona relazionale perché invita all’incontro: ad una relazione forte, con Cristo anzitutto, ma anche tra noi perché malattia e sofferenza non devono essere vissute da soli. Solo uscendo da solitudine e isolamento è possibile trovare un senso alle proprie ferite. Qui la comunità cristiana è chiamata a farsi prossimo a chi soffre, a farsi locanda del Buon samaritano.
Relazione quale fondamento di quel “prendersi cura” che va oltre il “curare”?
Il curare inteso come prassi medica per risolvere la patologia non è sufficiente. Le persone hanno bisogno di umanità, sollecitudine, attenzione. Un nodo cruciale oggi in sanità, ma anche nel vissuto di molti medici e infermieri, è l’impossibilità, a causa della mole e dei ritmi di lavoro, di stabilire una relazione con il paziente. Inoltre, i giovani che si preparano a essere i futuri professionisti della salute non vengono educati alla relazione; per molti anni è stata anzi rimossa la dimensione empatica, viceversa necessaria alla relazione con il paziente. L’operatore sanitario non si pone di fronte a un organo o a una malattia, ma ha di fronte una persona. Per questo l’obiettivo dei sistemi e delle strutture di cura non può più essere la mera soluzione della patologia ma la presa in carico globale della persona.
Quando però lo stato della malattia è irreversibile, inizia a farsi strada nell’opinione pubblica l’idea di una sorta di legittimazione di atti volti a sopprimere la vita in nome del cosiddetto principio di autodeterminazione.
Alcune malattie sono purtroppo inguaribili, ma non esistono persone incurabili. Questo principio ricolloca medicina e scienza medica nella giusta prospettiva assicurando agli operatori sanitari quella libertà di coscienza che è il giusto e coerente equilibrio tra l’apparato valoriale del medico e le esigenze del malato. In questo ambito la piena dignità della cura consiste nella piena dignità del malato, che deve essere accompagnato nell’assoluta libertà del medico e dell’infermiere di poter operare in coscienza. Nella consapevolezza che la vita è un bene inviolabile e indisponibile.
Il discorso sul fine vita apre il capitolo delle cure palliative, in Italia non garantite di fatto a tutti.
A 10 anni dalla sua promulgazione, la legge 38/2010 è una tra le meno applicate nel nostro ordinamento. È poco conosciuta, poco promossa e sottofinanziata, ma al di là del finanziamento manca una cultura della palliazione, sia in molti operatori sanitari, sia nella popolazione spesso inconsapevole di questo suo diritto sancito dalla legge. Di qui il nostro impegno di sensibilizzazione culturale anche nei confronti delle Regioni laddove questa dimensione è sottovalutata. In determinate condizioni di malattia è un diritto del cittadino ricevere cure palliative; è un dovere morale per noi assicurarle.
Sappiamo infatti che se una persona è accompagnata con competenza nel tratto terminale della sua vita, sollevata dal dolore e in un contesto amorevole, accogliente e di piena dignità, non chiede di abbreviare la propria esistenza.