Dopo la solenne cerimonia di beatificazione dello scorso 19 ottobre, la prima memoria liturgica del beato Alfredo Cremonesi è stata celebrata, a livello diocesano, nella serata di oggi, 7 febbraio, nel giorno che ricorda il martirio del missionario cremasco avvenuto in Birmania (oggi Myanmar) nel 1953. A presiedere la santa Messa in Cattedrale – assente il vescovo Daniele che, come riferiamo a parte, si trova sui luoghi di missione di padre Cremonesi – è stato monsignor Ennio Apeciti, rettore del Pontificio Seminario Lombardo a Roma e responsabile del Servizio per le Cause dei Santi dell’Arcidiocesi di Milano. Monsignor Apeciti ha contribuito alla preparazione della Causa di beatificazione di padre Cremonesi: è stato, infatti, “giudice” nel processo diocesano avviato il 19 giugno 2004 dall’allora vescovo Angelo Paravisi, primo passo del lungo iter che, poi approdato a Roma, ha condotto alla beatificazione approvata dal Papa.
L’ha presentato ai fedeli e salutato don Giuseppe Pagliari, anch’egli protagonista della beatificazione di padre Alfredo in viste di parroco di Ripalta Guerina, che ha letto anche una breve biografia del martire cremasco.
Nell’omelia, monsignor Apeciti è partito proprio dal quel giugno del 2004. “Ho ancora negli occhi – ha detto – la figura di monsignor Paravisi, mentre firma i decreti per l’inizio dell’Inchiesta diocesana sul martirio di padre Alfredo Cremonesi. Ricordo le parole del Vescovo in quella circostanza: la raccolta delle testimonianze sul martirio sarebbe stata un’occasione ‘enorme’ per la sua diocesi, per Crema, ‘perché i santi e i martiri sono il segno di una Chiesa feconda, che sta vivendo il Vangelo intensamente’. Parole – ha aggiunto – che mi fecero sentire maggiormente la responsabilità di condurre il Processo”.
Monsignor Apeciti ha quindi ricordato il viaggio in Myanmar con don Giuseppe Pagliari, necessario per raccogliere le testimonianze sulla vita e sulla morte di padre Alfredo: “Come sempre in questi casi, confidavo un poco in Dio, nella sua Provvidenza. Anche questa volta non sono rimasto deluso”. Di quel viaggio in Birmania don Ennio ha riportato alla memoria il ruolo straordinario di alcuni missionari anziani, che si prodigarono – pur tra le difficoltà di muoversi in località vietate agli stranieri – per cercare testimoni oculari, “che avevano visto padre Cremonesi trascinarsi ferito, accanto al suo catechista, davanti ai soldati che sparavano”.
Monsignor Apeciti interrogò quelle persone semplici e povere le quali, ha sottolineato, “ricordavano che il missionario aveva promesso di non lasciarli mai soli, di proteggerli sino alla morte, se fosse stato necessario. Ed era avvenuto”. Da un villaggio vicino a Taungngu, Scwetazaung, ha aggiunto commosso Apeciti, “venne, sulla canna della bicicletta di suo fratello, Emilia, la figlia della signora che aveva accudito padre Cremonesi e gli era stata vicina nei momenti drammatici, ne aveva raccolto il corpo e conservato parte della sua tonaca e della sua barba fluente. Fu emozionante toccare le ‘reliquie’ di un uomo che, per amore di Cristo, aveva dato la sua vita per i suoi fratelli birmani”. Padre Cremonesi, ha rilevato don Ennio, “si era preparato da sempre a quel dono, al dono della sua vita”.
Dopo aver citato e letto diversi stralci degli scritti del beato missionario – utili ancora una volta per comprenderne la straordinaria spiritualità, l’entusiasmo e la grandissima fede – monsignor Apeciti ha riflettuto su cosa può dire a noi padre Alfredo, oggi, “in questa nostra epoca incerta e confusa, in questo momento ‘liquido’ dove tutto sembra liquefarsi nell’indifferenza, che si veste di relativismo, di rispetto tale per cui, volendo (o dicendo di volere) rispettare le opinioni altrui, non diciamo le nostre, forse perché non le abbiamo più; in questo momento nel quale per rispettare la fede degli altri non annunciamo più la nostra fede, forse perché ne abbiamo poca e poco certa e poco rocciosa… Forse, in questo tempo padre Alfredo ci ripeterebbe quello che scrisse il 17 agosto 1951 a madre Amina Uselli: ‘Abbiamo fiducia. Abbiamo coraggio. […] nessuna paura. Non siamo noi che cresciamo in Gesù, è Gesù che cresce in noi. Il sole che fa crescere la nostra santità non è dentro di noi, è fuori di noi, è Gesù stesso. […] Apri le tue finestre al sole della Grazia e di Gesù. Vedrai che festa nell’anima e nel cuore!’. Apriamoci – ha concluso – a questo sole. Apriamoci anche noi a Gesù. Accogliamolo in questa Eucaristia, che padre Alfredo Cremonesi celebra con noi dal Cielo, presso questa Luce, presso Gesù. Con la Sua gioia”.
Durante la Messa, al momento dell’Offertorio, fedeli della parrocchia natale di padre Alfredo, Ripalta Guerina, hanno portato sull’altare un cero, un cesto di fiori e il testo della cosiddetta “positio”, dove sono contenuti tutti i testo del processo di beatificazione.
Al termine della celebrazione, don Gabriele Frassi ha letto la lettera del vescovo Daniele che, dal lontano Myanmar, dov’è in pellegrinaggio con una ventina di fedeli cremaschi sui luoghi del martirio di p. Cremonesi, ha inviato ai fedeli raccolti in cattedrale a Crema.
A lato dell’altare l’edicola lignea in onore di p. Alfredo, sacerdote e martire, che verrà posta sul primo altare destro della cattedrale.
IL TESTO INTEGRALE DELL’OMELIA DI P. APECITI
Preparandomi a questa celebrazione, ho pensato a tre momenti:
- Cosa è stato Padre Alfredo Cremonesi per me? Cosa mi ha lasciato?
- Cosa direbbe di sé Padre Cremonesi? In altre parole: cosa è stato lui stesso per lui?
- Cosa è e può essere ancora per noi? Perché i santi – e in particolare modo i martiri – ci sono donati da Dio proprio per questo: per indicargli una strada, un sentiero, che anche noi possiamo percorrere, solo che lo vogliamo!
1. PADRE CREMONESI PER ME
Ho ancora negli occhi la figura di mons. Angelo Paravisi, mentre firma i decreti per l’inizio dell’Inchiesta diocesana sul martirio di Padre Alfredo Cremonesi. Ricordo le parole del Vescovo in quella circostanza: la raccolta delle testimonianze sul martirio di Padre Cremonesi sarebbe stata un’occasione «enorme» per la sua diocesi, per Crema, «perché i santi e i martiri sono il segno di una Chiesa feconda, che sta vivendo il Vangelo intensamente».
Quelle parole mi fecero sentire maggiormente la responsabilità, che assumevo, di condurre il Processo. Non sarebbe stato facile, perché padre Cremonesi era partito per la Birmania con l’entusiasmo dei missionari di un tempo, pronto a morire lontano e salutando i suoi genitori con la frase tipica dei missionari, che mi ha sempre fatto impressione: «Babbo, mamma, ci rivedremo in Paradiso».
Dovevamo, dunque, don Giuseppe Pagliari ed io, andare in Myanmar e raccogliere le testimonianze sulla vita e sulla morte di Padre Alfredo, così che il Vescovo e poi la Congregazione delle Cause dei Santi potessero essere sicuri nel proclamare padre Cremonesi «martire».
Ma ci saremmo riusciti? Portavo con me questa domanda, nel lungo volo verso Yangon, la capitale della Birmania. Come sempre in questi casi, confidavo un poco in Dio, nella sua Provvidenza. Anche questa volta non sono rimasto deluso.
L’ESPERIENZA DELLA PROVVIDENZA
C’è stata certamente la Provvidenza che ci ha accompagnato. Sin dall’inizio. Noi in Birmania sapevamo di poter contare solo su tre persone sicure, mons. Abraham Than, vescovo emerito di Keng Tung, ove visse un altro beato del PIME, padre Angelo Vismara, e due missionari anziani, padre Paolo Noè e padre Igino Mattarucco.
Ma avrebbero potuto aiutarci? Saremmo riusciti a raggiungerli? Soprattutto padre Noè, che viveva in una zona della Birmania, proibita agli stranieri. E poi? Occorrevano ben più ed altri testimoni, ma la speranza di vita in Myanmar è molto breve: avremmo trovato dei testimoni vivi, a cinquant’anni di distanza?
Ho riletto ancora una volta ciò che avevo annotato nel mio diario, alla fine, il giorno prima di rientrare in Italia, quando mi misi davanti al Tabernacolo della Cappella della sede della Conferenza Episcopale Birmana di Yangon, dove eravamo alloggiati.
Ripensai a padre Celso, che spinto dall’amicizia e dal desiderio tipicamente orientale di aiutare dei confratelli italiani, aveva cercato un poco in tutta la Birmania se ci fossero testimoni; che aveva trovato un interprete, capace di parlare italiano, inglese e i principali dialetti birmani; che aveva scomodato i suoi amici, per ottenerci di andare anche nelle zone del Paese, proibite agli stranieri. Padre Celso aveva organizzato tutto come un orologio svizzero: arrivati in un luogo, c’era il tempo di (veder) scaricare i bagagli e si cominciava con i testi, chiamati in numero sufficiente per quella giornata: padre Celso nei primi giorni aveva studiato quanto li torchiavo.
Il “mistero” di New Donokhu
E fu una misteriosa – o provvidenziale – fortuna. Potemmo andare così a Huarì, nell’interno, da dove padre Noè, non poteva allontanarsi, perché ormai troppo infermo.
Ripenso ancora a quel viaggio: lungo il tragitto, per ingannare un poco il tempo, padre Celso, ci indicò un villaggio: New Donokhu, un villaggio cristiano. Nessuno di noi ne conosceva l’esistenza.
Ci colpì il nome: Donokhu era il villaggio del martirio di padre Alfredo ed era stato raso al suolo. Un poco incuriositi ci fermammo, giusto il tempo di sgranchire le gambe: il viaggio era ancora lungo e già eravamo in ritardo.
Ci venne incontro il parroco, un gentile prete birmano, che ricordava ancora un poco dell’italiano, imparato durante il suo soggiorno per studi in Italia. Era un italiano stentato, ma sufficiente per farci capire che lì c’erano persone che avevano conosciuto P. Cremonesi, perché erano emigrate proprio da Donokhu, dopo l’assassinio di padre Alfredo.
Lasciai al parroco alcune domande, che gli chiesi di porre alla gente, per vedere se valesse la pena fermarsi il giorno dopo, nel nostro viaggio di ritorno: non ci era permesso essere in quella zona.
Il giorno dopo, dunque, sostammo, con la raccomandazione di padre Celso: «Don Ennio, non più di mezz’ora di sosta!». Ai numerosi posti di blocco non ci avrebbero perdonato il ritardo sul programma degli spostamenti, che avevamo dovuto consegnare in precedenza.
Ed ecco la nuova stupefacente sorpresa. Il parroco aveva preparato delle schede, riassumendo le parole dei testimoni.
Cominciai a leggere quegli appunti del Parroco: erano testimoni oculari, che avevano visto padre Cremonesi trascinarsi ferito, accanto al suo catechista, davanti ai soldati che sparavano.
Rimasi attonito – o meglio pensieroso di fronte alla Provvidenza – e chiesi di interrogare più a fondo quelle persone semplici e povere.
Dovevamo sostare mezz’ora, ci fermammo per più di due ore. Ma avevamo la voce di quei fanciulli, che ricordavano che padre Cremonesi aveva promesso di non lasciarli mai soli, di proteggerli sino alla morte, se fosse stato necessario. Ed era avvenuto.
La “fede” di Emilia
La stessa sensazione di essere accompagnato dalla Provvidenza, che scioglieva le difficoltà, mi riprese, quando arrivammo a Taungngu, la capitale del distretto, ove era avvenuto il martirio.
Purtroppo, tre giorni prima i guerriglieri indipendentisti avevano fatto scoppiare scoppiata una bomba e le Autorità avevano vietato agli stranieri di uscire dalla città. Neppure l’amicizia quella volta riuscì a smuovere le autorità.
Ma intervenne la fantasia degli amici: i cattolici di Taungngu andarono a prendere alcuni testimoni nella vecchia Donokhu, perché potessero testimoniare. E ancora una volta, quale sorpresa: un testimone oculare!
E non solo: la notizia che dall’Italia fossero venuti a cercare notizie su padre Cremonesi si era diffusa nella coraggiosa e piccola comunità cattolica birmana.
Così da un altro villaggio – Scwetazaung -, era venuta – sulla canna della bicicletta di suo fratello – Emilia, la figlia della signora, che aveva accudito padre Cremonesi, e gli era stata vicina nei momenti drammatici e ne aveva raccolto il corpo e conservato parte della sua tonaca e della sua barba fluente.
Fu emozionante toccare le «reliquie» di un uomo, che per amore di Cristo aveva dato la sua vita per i suoi fratelli birmani. Ripensai alle parole di Giovanni: «Avendo amato i suoi, li amò sino alle fine» (Gv 13, 1).
L’insegnamento delle “reliquie”
Tanto più preziose quelle «reliquie», perché dimostravano concretamente che padre Alfredo era considerato un uomo «eccezionale», qualcuno per il quale si era superata una delle “resistenze” più radicate nei popoli orientali, quella nei confronti della “morte” e del “cadavere”.
Rileggo gli appunti stesi quella sera:
«Qui la morte è vista come una cosa da non ricordare e il corpo è solo un involucro che non vale molto […]. Perché, allora, questa donna ha conservato con tanta devozione i ricordi di sua madre? I ricordi di padre Cremonesi?».
Loro stessi, i cattolici birmani, mi avevano risposto. Uno di loro mi spiegò:
«Sarei molto contento se il Papa proclamasse santo e martire padre Cremonesi. Dopo la sua sepoltura, a tutte le famiglie del villaggio fu consegnata l’immagine e un pelo della sua barba, segno di venerazione per noi, perché sono come una reliquia, come fanno i buddisti per i capelli del Buddha».
Tanto era ed è venerato padre Alfredo. Perché? Mi rispondeva la frase dell’immaginetta-ricordo in lingua kaya, che mi era stata mostrata:
«Padre Alfredo ha sacrificato la sua vita, corpo e anima, per la sua gente khareni a Donokhu».
Padre Cremonesi si era preparato da sempre a quel dono, al dono della sua vita:
«Noi missionari non siamo davvero nulla – aveva scritto -. Il nostro è il più misterioso e meraviglioso lavoro che sia dato all’uomo non di compiere, ma di vedere: scorgere delle anime che si convertono».
2. PADRE CREMONESI PER LUI
Eccomi così a passare al secondo momento della mia riflessione: chi era per se stesso Padre Alfredo?
In primo luogo, ricordo una pagina che ho sempre ritenuto fondamentale e che, infatti, ritrovo in internet, nelle pagine a lui dedicate.
Dopo ventuno anni di missione
È la sua lettera da Taungngu (Toungoo) scritta il 20 febbraio 1946, quando padre Alfredo è ormai da ventun anni in missione:
«Da ormai sei anni sono forzato al silenzio. La guerra é stata terribilmente lunga e la prova per noi difficile oltre ogni dire. […] Ho dovuto scappare anch’io nel bosco e vi assicuro che durante la stagione delle piogge non è affatto piacevole, soprattutto se non si ha nulla. Possedevo solo i vestiti che avevo addosso. Non ebbi mai una goccia di olio per condimento, non si vide mai pane, mancammo per anni di zucchero, ci venne a mancare persino il sale […] Abbiamo sofferto tutti, e nessuna meraviglia se adesso mi trovo stanco, di una stanchezza però vincibile. Sono vivo. È questa una grande grazia, dopo aver affrontato la morte quasi ogni giorno. Il Signore mi ha visibilmente protetto».
Sono ormai ventun anni che p. Alfredo Cremonesi è in missione, affrontando sofferenze di ogni tipo, compresi i grossi disagi causati dallo scoppio della Seconda guerra mondiale, come descrive in questa lettera.
Chi l’avrebbe detto che sarebbe riuscito a sopportare queste enormi privazioni fisiche, proprio lui di salute così debole e provata, che già da giovane aveva rischiato di morire?
Il Crocefisso d’oro
Devo resistere alla tentazione di soffermarmi sulla sua vita, sulla ricchezza dei suoi pensieri. Purtroppo, devo limitarmi all’essenziale, che spero capace di illuminare la figura di questo Beato Missionario Martire.
Ricordo – tra le molte pagine che mi avevano affascinato – quella a commento della consegna del crocifisso, ricevuto dal cardinale Eugenio Tosi il 5 ottobre insieme ad altri quindici padri e un fratello:
«Il Crocefisso d’oro sulla croce di legno! D’oro? Oh, no! I missionari hanno solo il cuore d’oro. Ma quel Crocifisso ha il colore e lo splendore dell’oro, che emerge sullo sfondo nero della croce di legno. Il Crocefisso è caratteristico dei missionari, sta sempre sul petto di ogni martire e di ogni eroe! Eccolo ora sul nostro petto […] come il compagno indivisibile delle nostre fatiche, come il conforto, il sostegno, il vero amico nostro in vita e in morte. Allora abbiamo capito la nostra dignità, la nostra missione. Lasciare tutto generosamente, come Lui lasciò per gli uomini il Cielo, correre ovunque a far del bene, come Lui che passò e fece bene tutte le cose, salire il Calvario e morire per coloro che abbiamo tanto amato. Come non amare questo Crocefisso d’oro sulla croce nera».
Le tre cose necessarie
Un secondo suo pensiero vorrei affidare alla nostra meditazione questa sera. È tratto dalla lettera scritta alla zia suora il 30 settembre 1925, quindici giorni prima della partenza per la Birmania: «In questi ultimi giorni che mi separano dal grande giorno del mio supremo distacco, sento tutto il peso sconcertante della mia debolezza, tutto lo schiaffo terribile del mio povero nulla. […]
E per riuscire a questo, a me sembrano necessarie tre cose: I. Veder Dio in ogni cosa; II. Amar Dio in ogni cosa; III. Servir Dio in ogni cosa.
- – Veder Dio in ogni cosa. […] Veder in ogni cosa Nostro Signore è anche questione di fede. Perché dunque non si dovrà amare con il cuore di Gesù, non si dovrà parlare con la lingua di Gesù? […]
Vedere quindi Dio nelle cose liete e nelle tristi: fare il viso contento non solo quando splende il sole e tutto va bene, ma anche quando c’è bufera dentro di noi ed intorno a noi. Anzi è allora che più bisogna vedere Dio nelle cose, è allora che bisogna ricordarsi che Dio non permette mai un dolore se non per procuraci una gioia più profonda e duratura.
- – Bisogna amar Dio in ogni cosa. […] Se noi davvero amassimo Dio, ameremmo dunque anche la sua volontà. […] Amarla questa santa volontà, fare volentieri qualche piccolo sacrificio per il Signore, mortificare volentieri il nostro carattere, il nostro temperamento per il Signore! Quanto è bello vivere così! […] Allora sì arriveremo a quella uguaglianza di carattere che forma la caratteristica dei Santi. Uguali sempre, sempre ridenti, sia quando va tutto bene, sia quando va tutto male. Sempre sorridere del sorriso di Dio. E allora anche quando saremo nell’afflizione, sapremo servir Dio in ogni cosa.
III. – Servir Dio in ogni cosa. Servir Dio e non noi stessi, […] È questa la necessaria conseguenza dell’amar Dio in ogni cosa, del veder Dio in ogni cosa. E serviremo Dio fino alla consumazione della vita».
Pare quasi di cogliere qui il presagio di quello che gli accadrà, quasi che Padre Alfredo lo presentisse. Che lo volesse. E concluse: «Pregate perché io e voi, perché tutti i missionari di questo mondo siano fatti così».
La preghiera
Una terza sottolineatura vorrei cogliere in Padre Alfredo, quella della preghiera.
Infatti, è missionario soprattutto con la preghiera, segno del suo amore per il Signore, come scrive alla zia suor Gemma il 15 settembre 1929:
«Amate il carissimo Gesù un po’ anche per me. Cerchiamo di stare uniti a Gesù più che è possibile alla nostra miseria. Lo so che non è dato a noi di star sempre con il pensiero fisso in Gesù. Siamo povere creature e la nostra testa è tanto piccola che non ci sta più di un pensiero alla volta. Ma quello che importa è che noi ci sforziamo di ritornare a Gesù con il nostro pensiero appena ci accorgiamo che ne siamo stati lontani per un pezzo. C’è davvero un’unica sola tristezza degna di questo nome, qui su questa terra, ed è di non essere santi come vorremmo».
Dedica dunque molto tempo all’adorazione e non esita a trascorrere diverse ore della notte davanti all’Eucaristia.
Padre Cremonesi, infatti, tutte le notti, anche dopo un giro faticoso, si alzava a mezzanotte per un’ora di adorazione davanti al Tabernacolo. Tornato a letto, alle quattro era di nuovo in chiesa per la S. Messa e l’ufficio.
E a chi lo ammoniva a non esagerare, come sua zia suor Gemma rispondeva (9 ottobre 1947):
«Non abbiate paura che mi ammazzi. Il lavoro non ha mai ammazzato nessuno, e l’Ora di adorazione di notte non mi fa affatto male».
Questa è la sua ancora di salvezza, anche nei momenti più duri di solitudine.
L’entusiasmo
Da questa “Ora di adorazione” conseguì – a mio parere – la terza caratteristica di Padre Alfredo, l’entusiasmo, che lo animò sempre.
Amo citare ancora la sua lettera a suor Gemma, la zia:
«Noi missionari […] Il nostro è il più misterioso e meraviglioso lavoro che sia dato all’uomo non di compiere, ma di vedere: scorgere delle anime che si convertono è un miracolo più grande di ogni miracolo».
Lo sostenne sin dal primo momento e, infatti, ne ritrovo traccia in una lettera ai suoi familiari del 2 febbraio 1938:
«Statemi bene e non pensate male di me. Il peggio che mi possa capitare è di morire, il che non è poi una gran disgrazia, giacché questo povero mondo non è bello affatto e fa desiderare tanto il Paradiso. Preghiamo a vicenda e arrivederci in Paradiso, ché solo questo è certo, se il Signore avrà misericordia di noi».
Mi domando se non sia questo, proprio questo, ciò di cui abbiamo bisogno noi!
3. PADRE CREMONESI PER NOI
Così giungo – rapidamente – al terzo punto: cosa può dire a noi Padre Alfredo? In questa nostra epoca incerta e confusa, in questo momento “liquido” ove tutto sembra liquefarsi nell’indifferenza, che si veste di relativismo, di rispetto tale per cui, volendo (o dicendo di volere) rispettare le opinioni altrui, non diciamo le nostre, forse perché non le abbiamo più; in questo momento nel quale per rispettare la fede degli altri non annunciamo più la nostra fede, forse perché ne abbiamo poca e poco certa e poco rocciosa … Forse in questo tempo Padre Alfredo Cremonesi ci ripeterebbe quello che scrisse il 17 agosto 1951 alla zia madre Amina Usuelli:
«Abbiamo fiducia. Abbiamo coraggio. […] nessuna paura. Non siamo noi che cresciamo in Gesù, è Gesù che cresce in noi. Il sole che fa crescere la nostra santità non è dentro di noi, è fuori di noi, è Gesù stesso. […]Apri le tue finestre al sole della Grazia e di Gesù. Vedrai che festa nell’anima e nel cuore!».
Apriamoci a questo sole. Apriamoci anche noi a Gesù. Accogliamolo in questa eucaristia, che Padre Alfredo Cremonesi celebra con noi dal Cielo, presso questa Luce, presso Gesù. Con la Sua gioia.