crema – Interviste esclusive ai dott. Bianchi e Margutti, intervenuti a Crema

 

Sabato 9 novembre 2019 alle ore 16,30 si è tenuto il primo appuntamento invernale della rassegna Storici dell’arte in Palazzo Vescovile organizzata dalla Libreria Cremascain collaborazione con la Diocesi di Crema. Ospiti sono stati Eugenia Bianchi (Coordinatrice del Sistema Museale della Diocesi di Como) e Stefano Margutti (Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano) che hanno presentato il volume Palazzo Litta a Milano, a cura di E. Bianchi, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2017.

Dott.ssa Bianchi, qual è stato il suo percorso di studi e cosa l’ha spinta a occuparsi di storia dell’arte?

È stato soprattutto il fatto che all’esame di maturità classica nell’ormai lontano 1989 uscì come materia storia dell’arte e decisi di portare questa disciplina come prima materia. Mi ero già iscritta a una facoltà di economia, ma alla fine dell’esame cambiai idea e mi iscrissi a Lettere Moderne con indirizzo artistico all’Università Cattolica. Mi sono laureata con una tesi dedicata al pittore milanese preneoclassico Francesco Corneliani e specializzata con una tesi dedicata alla pittura in Valtellina nel primo Cinquecento. Per lungo tempo ho collaborato con l’allora Soprintendenza per i Beni Storico Artistici di Milano e con la Diocesi di Milano per attività di schedatura e poi ho lavorato come referente scientifico al progetto di schedatura CEI delle Diocesi di Bergamo e di Milano. In seguito sempre con lo stesso ruolo ho lavorato per la Diocesi di Como, dove nel 2015-2016 ho collaborato alla nascita del Sistema Museale della Diocesi di Como, di cui sono coordinatrice e referente scientifico. Questi ruoli mi hanno offerto la possibilità di una conoscenza sul campo altrimenti difficile da avere. La maggior parte dei miei studi sono collegati a questo lavoro, con particolare riferimento all’epoca barocca e tardobarocca.

Dott.ssa Bianchi, lei è la curatrice di questo complesso libro su Palazzo Litta. Qual è stata la genesi dell’opera e quanti anni di lavoro ha richiesto?

Il volume vuole ricostruisce le vicende storiche architettoniche e decorative di una delle più importanti residenze gentilizie più significative di Milano, emblematica di una committenza (gli Arese, i Visconti Borromeo e infine i Litta) tesa a manifestare il suo potere e i suoi privilegi anche attraverso un’opportuna pratica e committenza residenziale.

Dopo un prima falsa partenza nel 2011, nel 2015 si è riproposta l’occasione di realizzare il volume che è stato edito nel 2017 dopo due anni di ricerca soprattutto su fonti di prima mano.

Quali sono le principali novità emerse riguardo alla decorazione del palazzo?

Molte sono le novità emerse nel corso dei due anni di studi. Si è per esempio ricostruito il contesto urbanistico in cui è sorto il palazzo, in una prospettiva tutta inedita che è risalita fino alla Milano sforzesca e alla lenta costruzione della proprietà Arese nella quale sorse la prima fabbrica.

Tra le novità è da sottolineare anche il ruolo fondamentale della committenza di Giulio Visconti Borromeo Arese a cui si deve, oltre alla particolarissima facciata, l’allestimento della sala degli specchi. È questa una delle sale più belle e rappresentative del palazzo, dove gli intagli di Giuseppe Cavanna e le pitture di Ferdinando Porta fanno a gara per renderla una delle migliori manifestazioni del rococò lombardo.

L’ultima fase di splendore del palazzo si deve ai fratelli Antonio e Giulio Litta. A noi Cremaschi piace ricordare che Giulio Litta donò al musicista Giovanni Bottesini un prezioso contrabbasso del liutaio bresciano Gasparo da Salò. Quali altre opere di mecenatismo si devono ai due fratelli?

Di Palazzo Litta si sono indagati anche gli interventi decorativi ottocenteschi, quando Antonio e Giulio Litta, munifici mecenati e raffinati collezionisti operarono per rendere i loro appartamenti allineati all’imperante gusto ecclettico. È stata una piacevole sorpresa trovare tra le sale del palazzo, alcune ancora decorate dalle pitture di Luigi Scrosati, tra gli artisti più ricercati dalla nobiltà milanese che vantò un rapporto privilegiato con i due nobili.

Significative novità sono emerse anche dalla ricostruzione della quadreria che rese illustre il palazzo, una presenza costantemente citata nelle antiche guide milanesi e ricordata dai viaggiatori e dagli intenditori d’arte che avevano accesso alle sue splendide sale.

Dott. Margutti, anche a lei chiediamo qual è stato il suo percorso di studi e cosa l’ha spinta a occuparsi di storia dell’arte?

Ho scelto di investire la mia formazione nel campo della storia dell’arte alla fine del liceo senza avere la certezza di voler fare lo storico dell’arte ma spinto più che altro da una passione e da un fascino che mi ha accompagnato fin da bambino. Se devo pensare a un momento decisivo per questa mia vocazione, è stato senza dubbio la “scoperta” della chiesa di Santa Maria presso San Satiro del Bramante grazie al professore di arte delle medie, che ricordo ancora come fosse ieri.

Ho scelto quindi di studiare scienze dei beni culturali alla Cattolica di Milano dove ho incontrato veri e propri maestri che mi hanno mostrato una modalità di approccio allo studio della storia dell’arte che ho desiderato fare mio. Col tempo è maturata una netta preferenza per la storia dell’architettura, che ho avuto la fortuna di approfondire attraverso un dottorato di ricerca svolto a Roma. Qui sono entrato in contatto con alcuni degli studiosi più esperti e affascinanti della disciplina, ulteriori maestri da cui ho potuto imparare e approfondire un approccio verso l’architettura, fatto di metodo scientifico ma soprattutto di desiderio di conoscenza e di eccezionale sensibilità verso la bellezza, ingredienti fondamentali per poter fare questo “mestiere”.

Riguardo a Palazzo Litta, lei ha condotto gli studi sulle vicende architettoniche. Quali sono state le principali difficoltà e quali le novità emerse?

Èstato un lavoro segnato da moltissime difficoltà, dettate dal fatto che palazzo Litta prima d’ora non è mai stato oggetto di uno studio specifico; si è trattato quindi di condurre una ricerca su una fabbrica quasi del tutto inesplorata. Oltretutto parliamo di un palazzo con una storia secolare travagliata che lo ha visto nascere nella prima metà del Seicento su un lotto di case preesistenti e che ha subito grandi trasformazioni e ampliamenti nel corso del Settecento e ancora nell’Ottocento, senza trascurare le decisive trasformazioni novecentesche che hanno stravolto drasticamente il fronte verso foro Bonaparte.

Una difficoltà fondamentale è stata quindi riconoscere nel palazzo attuale, le tracce di queste numerose trasformazioni attraverso l’osservazione diretta dell’edificio e lo studio delle fonti documentarie. Le risposte però sono state positive e anche stupefacenti visto che sono emersi disegni del ‘600 e del ‘700 che dimostrano come il palazzo conserva tuttora quasi interamente l’impianto originario secentesco, firmato da Richino. Tra le varie novità emerse vorrei sottolineare anche la scoperta di una traccia dell’intervento di Piermarini a fine Settecento in un monumentale cancello, oggi purtroppo in parte smembrato, di cui si conservano anche gli originali disegni progettuali.

Tornando alle difficoltà, altra grande fatica è stata senza dubbio riuscire a identificare gli architetti coinvolti nel cantiere nei secoli e il loro effettivo ruolo nella costruzione del palazzo. La fase settecentesca si è rivelata particolarmente intricata con la progettazione e realizzazione nel giro di circa vent’anni delle parti più monumentali del palazzo – lo scalone d’onore, l’eccentrica facciata e il cortile dell’orologio – che ha visto l’intervento di almeno tre autorevoli architetti diversi in tempi e modi davvero difficili da ricostruire.

L’elemento più caratteristico del palazzo è lo scalone con sostegni ellittici, di che si tratta e chi furono gli ideatori?

Si tratta senza dubbio di una delle architetture più innovative e “internazionali” realizzate a Milano nel Settecento, anche se quella che vediamo oggi non è la struttura originale, in gran parte andata distrutta nei bombardamenti del ‘43, ma una sua replica. Il progetto è dell’architetto milanese Carlo Giuseppe Merlo che ha saputo soddisfare il desiderio del conte Giulio Visconti Borromeo Arese di dotare la propria dimora milanese di uno scalone d’onore che rievocasse gli imponenti scaloni dei palazzi viennesi ammirati durante i suoi anni di permanenza alla corte asburgica.

Gli arconi ellittici sono sicuramente l’elemento distintivo dello scalone. Furono pensati per reggere le due rampe laterali superiori, partendo da terra fino ad arrivare al piano nobile senza bisogno di sostegni intermedi. Si tratta di una soluzione ardita che presentava problemi statici per i quali Merlo ha dovuto chiedere il supporto di uno dei matematici più celebri ed esperti di statica a livello europeo del Settecento, il padre barnabita Francesco Maria de Regi. Una struttura di questo tipo non ha eguali in tutta Europa; lo scalone che più si avvicina è quello dello Schloss Augusturburg in Germania, opera famosa dell’architetto Balthasar Neumann, che viene solitamente indicata come modello a cui Merlo si è ispirato. In realtà la cronologia dei due interventi fa pensare a una realizzazione quasi in contemporanea se non addirittura ribaltata, con la possibilità quindi che lo scalone milanese abbia anticipato il più noto esemplare tedesco.

L’altro aspetto che colpisce del palazzo è l’imponente facciata su corso Magenta. Chi fu il progettista e chi ha scolpito i due giganteschi telamoni ai lati del portale?

Questa in realtà è una domanda a cui è difficile rispondere. Pur conoscendo i nomi degli architetti coinvolti nella realizzazione del prospetto resta davvero problematico risalire al vero autore del progetto. La realizzazione della facciata è stata sempre il punto critico di tutta la fabbrica fin dal Seicento. Possiamo addirittura dire che il palazzo non ebbe mai una facciata fino agli anni Quaranta del Settecento. Fu sempre il conte Giulio Visconti Borromeo Arese a impegnarsi nella sua realizzazione dopo il suo ritorno da Vienna nel 1738 (in realtà aveva fatto fare un progetto già prima intorno al 1715) anche se non riuscì a vederla finita. Furono le figlie a concludere i lavori negli anni ‘50 affidandoli al loro architetto di fiducia, il milanese Bartolomeo Bolla. Contrariamente a quanto si è sempre pensato però, il contributo di Bolla è stato solo quello di portare a termine, con alcune varianti, un progetto ideato da un altro architetto e in gran parte già attuato. Ancor più dello scalone la facciata dichiara una netta ispirazione ai prospetti delle grandi residenze imperiali e nobiliari viennesi. Le ricche decorazioni delle finestre, i possenti telamoni che inquadrano il portale e più in generale l’intera struttura della facciata mostrano un linguaggio architettonico profondamente asburgico che fa pensare che il progetto si debba a un architetto entrato in contatto con la corte di Vienna. La questione è totalmente aperta anche se le ricerche mi hanno portato a individuare come potenziali “sospetti” Carlo Giuseppe Merlo e Mauro Ignazio Valmagini, architetto italiano legato ai Visconti Borromeo Arese a lungo attivo a Vienna.

È invece certa la paternità dei due telamoni che spiccano ai lati del portale, realizzati intorno al 1756 da Elia Vincenzo Buzzi, tra i più carismatici scultori del panorama settecentesco milanese che già all’epoca ricopriva la carica di protostatuario del Duomo di Milano.