Cresce, di giorno in giorno, il rischio di un grande corto circuito europeo. Le difficoltà in cui si dibatte il vecchio continente sono sotto gli occhi di tutti. Anche se – è sempre necessario ribadirlo – la crisi si alimenta non tanto a Bruxelles, quanto nei singoli Stati aderenti all’Unione, ciascuno dei quali attraversato da pulsioni spesso in contrasto tra loro (e comunque in conflitto con gli interessi degli altri Paesi): chiusure nazionaliste, spinte centrifughe, paure a sfondo xenofobo, reali disagi sociali, egoismi latenti, rifiuto delle dinamiche democratiche, evidente ridimensionamento della coscienza collettiva. Prima della politica europea, è la società europea ad essere malata.
E i sintomi della patologia prendono corpo nei momenti elettorali: in un’epoca segnata dall’assertività, dalle verità supposte anziché vagliate, discusse e verificate, dalle fake news dilaganti, il discernimento politico lascia spazio al tifo, la partecipazione personale e comunitaria al bene comune cede il passo alle falsità trasmesse (e ingurgitate) mediante il web.
In questo clima da caccia alle streghe, l’“Europa” (generalmente indicata e mai precisamente definita) è diventata il primo dei capri espiatori: accusata di ogni male, additata come fonte di sprechi e di regole inutili, messa all’indice da leader politici interessati a trovare un nemico su cui scaricare le proprie responsabilità e incapacità a governare.
Così, proprio quando occorrerebbe serrare i ranghi in sede europea per affrontare le innumerevoli e gigantesche sfide comuni che bussano alla porta del continente, nei Paesi membri hanno la meglio le forze politiche che dell’Ue farebbero – a parole – a meno, salvo poi invocare da Bruxelles soldi e risposte ai problemi quotidiani: dall’economia alle migrazioni, dalla difesa ai mutamenti climatici, dalla concorrenza cinese alla protezione della salute, dal sostegno alle imprese alla formazione dei giovani.
I PROBLEMI CONCRETI
Gli esempi concreti in tal senso abbondano. Basti pensare che a fronte di moltiplicate richieste di interventi risolutivi alle istituzioni dell’Unione europea, gli Stati membri insistono per una significativa riduzione del bilancio comunitario: come dire, fare di più (competenze accresciute) con meno soldi!
Lo stesso dicasi per le migrazioni: si pretende dall’Ue la bacchetta magica, salvo dover riconoscere – alcuni leader onesti lo hanno fatto – che l’Unione non ha di fatto competenza in materia.
Lo stesso dicasi per le pressioni geopolitiche esterne: le minacce provenienti dalle situazioni di Libia, Siria, Turchia, Russia, Iran, e persino dall’“alleato” statunitense (dazi e guerra commerciale), esigerebbero un fronte comune dei Paesi europei: ma se ciascuno pensa di poter fare da solo…
È in questo quadro che, trascorsa la pausa estiva, l’Europa riprende il suo cammino. Il sovranismo e i populismi interni fanno il pari con le instabilità e le turbolenze oltre i confini europei. La Germania si misura con violente manifestazioni a sfondo razzista; in Francia Macron sconta le difficoltà a governare e qualche dimissione ministeriale; la Svezia marcia verso le elezioni legislative del 9 settembre con il profilarsi del successo dei partiti dell’ultradestra; il Regno Unito è di fatto fuori gioco, più che mai isolato e in cerca di nuovi “amici” al di fuori dell’Europa. E poi l’antieuropeismo che lievita nei Paesi centro-orientali, le fragilità balcaniche, il governo in bilico della Spagna, la Grecia in ginocchio ancora in preda alla recessione. C’è poi l’Italia, in cui i nemici dichiarati dell’Europa (forse ormai maggioritari) non fanno più mistero dei loro sentimenti, che rimbalzano persino dalle sedi istituzionali.
I TRE PROSSIMNI APPUNTAMENTI
Sono almeno tre gli appuntamenti europei da tener d’occhio nel giro di un mese e mezzo, dai quali potrebbero venire segnali positivi, o meno, anche in vista delle elezioni dell’Europarlamento calendarizzate dal 23 al 26 maggio 2019: il Discorso sullo stato dell’Unione, che il presidente della Commissione Juncker presenterà al Parlamento europeo il 12 settembre; il vertice informale dei capi di Stato e di governo del 20 settembre a Salisburgo (focus su migrazioni e frontiere esterne); il Consiglio europeo del 18 ottobre (decisioni relative al Brexit e ai futuri rapporti con Londra). Si potrebbe trattare di tre snodi essenziali per capire se, e in quale misura, i Ventisette hanno la seria volontà di camminare ancora insieme per la costruzione del bene comune, in chiave solidale e nel rispetto delle differenze tra gli stessi Paesi membri. Diversamente, se dovessero prevalere le tendenze nazionaliste e disgregatrici, l’Ue non sarà l’unica vittima sul campo. Perché i nazionalisti in quanto tali non mirano a nuove convergenze, a obiettivi comuni, al reciproco sostegno: ognuno per sé, anche a costo di schiacciare i piedi del vicino.
GIANNI BORSA (SIR)