Sessantotto/3: Gruppo di San Pietro

Dopo l’ordinazione sacerdotale, Don Giorgio venne destinato alla parrocchia cittadina di San Pietro, in veste di coadiutore del parroco don Mario Maccalli. Era il 1969. Vi sarebbe rimasto per tredici anni. E – come per ogni curato – il suo principale impegno pastorale era con i giovani. Riuscì a formare un bel gruppo, protagonista delle vicende di quegli anni.
Gli anni della contestazione e della voglia spasmodica di nuovo. E anche con i suoi giovani, come con i confratelli sacerdoti, sono andati alla ricerca di un modo nuovo di vivere l’esperienza cristiana. Avevano adottato il metodo della comunione, il tentativo di realizzare una sorta di vita comune, per persone che vivono in famiglia e hanno una vita ordinaria di studio e di lavoro. A dire il vero qualche esperienza più radicale gli allettava: però non sono stati in grado di realizzarla. Ma forse è meglio così: la loro è stata un’esperienza tipicamente parrocchiale, alla portata di tutti, dei più bravi e anche di chi faceva più fatica. Sì, perché è facile e gratificante trovarsi con il gruppo degli eletti, molto più difficile agganciare o tentare di agganciare tutti, anche i più deboli.
I rapporti erano davvero intensi. In parrocchia non c’era un oratorio: realizzarono una “casa comune” di tre ambienti: una cucina, una sala per le riunioni e per i pasti, un magazzino per lo smistamento delle medicine per le missioni. All’apice dell’esperienza stabilirono un orario settimanale, esposto in bacheca, che guidava il vivere insieme.
La settimana era scandita dalla preghiera quotidiana dopo la Messa vespertina. Era un Vespro vero e proprio nel quale si cantavano i salmi di padre Turoldo con la musica originaria, quella di M. Tassoni. Li avevano portati a Crema don Giorgio e i giovani per primi, frequentando, per incontri spirituali, il centro di padre Turoldo a Sant’Egidio di Sotto il Monte.
Ai salmi facevano seguito la lettura della Bibbia continuata. La Sacra Scrittura era il punto di riferimento fondamentale di tutta la preghiera e della riflessione, secondo la ricchezza dell’insegnamento e della testimonianza che aveva ricevuto in seminario. Per un certo periodo si trovarono anche al mattino, prima della scuola, a pregare le lodi.
Tutti i giovani partecipavano alla Messa domenicale delle ore 11. L’animavano con canti e servizi. Cercavano di contemperare il vecchio e il nuovo, scegliendo canti tradizionali accompagnati dall’organo e canti moderni sostenuti dalle chitarre; ma facevano grande successo, ed erano cantati a squarciagola da tutti, anche alcuni canti latini, quelli più celebri. Insomma, innovazione, ma senza abbandonare – anzi valorizzando – la tradizione.
La vita comune si alimentava con riunioni serali due volte la settimana, precedute dalla cena comunitaria, di riflessione spirituale e catechetica. A breve s’iniziò anche ad organizzare vacanze insieme. Le prime, rimaste “mitiche”, a Grado. Non tutti naturalmente potevano partecipare all’intera vita comune, ma la comunità era tuttavia sempre attiva con gli uni o con gli altri. Riflettemmo a lungo anche su quali scelte caritative realizzare a favore dei poveri. Furono sostanzialmente tre: il Gruppo per il Ciad, il risanamento del Borgo e la vicinanza agli anziani (dei primi due scriverò a parte).

 

LA VICINANZA AGLI ANZIANI
L’impegno verso gli ultimi si concretizzava dunque anche nell’affiancamento degli anziani ricoverati nella casa di riposo della città. La comunità giovanile (i singoli ragazzi e ragazze a turno) visitava quotidianamente nella casa di riposo e spesso nelle singole abitazioni gli anziani della comunità parrocchiale.
Oggi fa strabuzzare gli occhi dire che, ogni domenica, un gruppo di giovani e ragazze andava in visita ai “vecchietti” dell’ospizio. Ma a quel tempo era possibile. E molte giovani continuavano le visite durante la settimana: ciascuna aveva “adottato” un anziano e lo affiancava in toto. Anche don Giorgio assisteva una vecchia signora della parrocchia, finita all’ospizio. Egli ricorda: era devotissima a San Gaspare del Bufalo e la gioia più grande che le procurò fu la scoperta del tomba del santo in una chiesetta a fianco della fontana di Trevi a Roma (trovata per caso). Vi andava a pregare per lei.

UN GRUPPO DI SANTI
L’attività spirituale ed ecclesiale aveva come momento forte la visita a nuove comunità che testimoniavano il Vangelo in modo speciale. Non facevano i tradizionali ritiri per proprio conto in qualche casa isolata. Andavano a vivere per qualche giorno l’esperienza di alcune comunità significative che, in quegli anni, sorgevano dappertutto.
Don Giorgio andò in avanscoperta, ad esempio, alla comunità di Bose con alcuni laici adulti (erano gli anni Settanta ed era appena stata fondata), ma il priore Bianchi non gli piacque fin da allora per il suo pesante e gratuito modo di criticare la Chiesa. Frequentarono qualche volta una comunità di accoglienza per ragazzi di Cesena dove avevano scelto di vivere due sorelle di Offanengo. Conoberro anche – come s’è detto – la comunità di padre Turoldo a Sant’Egidio di Sotto il Monte e con lui instaurarono una certa amicizia.
Ma fu soprattutto Lagrimone che li affascinò, sull’Appennino parmense, a 720 metri di altitudine, fra Emilia e Toscana, qualche chilometro oltre Langhirano, il paradiso dei prosciutti. Vi sorgeva un monastero di clarisse: quando lo conoberro divenne il loro punto di riferimento. Incarnava la loro voglia di una vita nuova, mediante una sorta di rottura con il mondo, ma senza rompere con la Chiesa, anzi amandola di più. Se da altre parti trovarono “personaggi”, allora e ancora oggi in vista, a Lagrimone trovarono tre santi.
La prima era “mamma Chiara”, madre Chiara Francesca (Eleonora Scalfi): abbadessa del monastero delle clarisse di Ferrara. Si era appassionata al rinnovamento conciliare e, leggendo il decreto sul rinnovamento della vita religiosa Perfectae Caritatis nel quale i padri conciliari chiedevano ai religiosi il ritorno alle fonti, si sentì fortemente interpellata. Decise di abbandonare il convento di Ferrara, troppo ricco. Ottenne in beneficenza un terreno e nel 1968, con una caparra di 10 mila lire, aprì il cantiere del piccolo monastero di Lacrimone, da lei stessa progettato. Vi si trasferì, assieme a sette sorelle, il 9 luglio 1969. Niente denaro, niente luce, niente riscaldamento. Una vita radicalmente francescana, fidandosi della Parola di Dio che dice: “Cercate prima il Regno di Dio e il resto vi sarà dato in aggiunta” (Mt 6,33).
Il monastero Regina Mundi (oggi si chiama Santa Chiara) divenne punto di riferimento per un gran numero di ricercatori di Dio. Per accogliere tutti, le monache costruirono, nel 1972, a cento metri da loro, la Casa del Padre come foresteria allargata, “luogo per persone in cerca dell’accoglienza cristiana”. L’esperienza continua ancora oggi, dopo che nel 1998 “mamma Chiara” è passata in cielo.
Il secondo “santo” era don Natale Montalti, classe 1940, “padre Natale” per tutti noi. Mandato dal vescovo come confessore delle monache, restò affascinato dalla loro scelta di radicalità, lasciò la sua parrocchia di Gatteo Mare e nel 1971 si stabilì a Lagrimone. Il voto della povertà integrale divenne per lui la via privilegiata per amare Cristo Crocifisso e tutte le persone. Abitò in una dismessa cabina elettrica (il “luoghetto” la chiamava) poco discosta dal monastero, per ritornare alla vita francescana radicale. Era divenuto anche cappellano delle clarisse e, successivamente, il vescovo gli aveva affidato la cura di alcune parrocchiette di montagna, ormai senza prete. Era un uomo straordinario, accoglieva un sacco di giovani che venivano a vivere con lui qualche giorno di preghiera.
Nel 1974 Padre Natale passò dal “Luoghetto” di Lagrimone al “Querceto” di Ruzzano, un chilometro circa dal monastero. Una famiglia sensibile gli aveva concesso in uso la propria casa rurale. Nello stesso anno fondò la piccola Fraternità francescana dell’Amore Vicendevole ed Universale, comprendente fratelli e sorelle dediti esclusivamente alla vita religiosa ed aperta ai laici che desiderano condividerne la spiritualità. Nel 1982 scrisse la Piccola Regola di Vita per la fraternità con il consenso del vescovo di Parma. Viveva poveramente accompagnato da Anna, una consacrata, anch’essa dedita ‘a sorella’ povertà. Padre Natale ci affascinava con la sua fede, con la sua parola, con il suo immancabile sorriso tra la nera barba e soprattutto con la sua testimonanza.
S’ammalò di cancro nel 1997. L’anno successivo, sentendo ormai vicina ‘sorella’ morte, si fece trasportare al Querceto dove, dopo aver celebrato la Pasqua con confratelli sacerdoti, morì santamente il 14 aprile 1998.
Il terzo santo era padre Guglielmo Gattiani (1914-1999), un francescano dalla lunga barba e con una gran croce bianca sopra il saio. Di lui è in corso il processo di beatificazione. Quello diocesano è stato aperto il 4 novembre 2006 e chiuso sabato 10 dicembre 2011, alle ore 17 nella cattedrale di Cesena.
Anche la vita di padre Guglielmo è stata tutta una ricerca di radicale fedeltà alla vocazione francescana e alla donazione totale a Dio e ai fratelli. È stato per diciotto anni maestro dei novizi nel convento di Cesena. A Lagrimone si recava una settimana al mese (lo fece per dieci anni). Qui con le monache, padre Natale ed altri condivisero il suo ideale di una Fraternità francescana secolare dell’amore vicendevole ed universale di cui scrisse una “piccola regola di vita”. Nel 1980 si recò per sei mesi in Terra Santa, ma venne presto richiamato dai superiori alla cappella del SS. Crocifisso di Faenza dove svolse il suo straordinario ministero di ascolto delle sofferenze di tutti, ogni giorno e tutto il giorno… e di notte pregava per loro. Chiuse la sua vita assieme al secondo millennio, il 15 dicembre 1999.
Lagrimone fu davvero l’oasi di ristoro e di ricarica per il gruppo di San Pietro. Questi tre santi furono testimonianza forte dell’amore di Gesù. Alcuni giovani della comunità frequentarono il monastero anche dopo la mia partenza da San Pietro. Oggi tutti i protagonisti sono passati in cielo e a Lagrimone si vive del loro spirito. Qui il gruppo mise solide basi per la fede e la vita ecclesiale.